In un angolo dimenticato di un giardino segreto, c’era una rosa che un tempo aveva regnato come la più bella tra tutte. Il suo rosso acceso brillava sotto il sole, e il vento danzava tra i suoi petali, raccontando la sua gloria. Ma il tempo, come sempre, aveva preteso il suo tributo. Ora, piegata su se stessa, la rosa appassita sembrava chinarsi verso il suolo, come se volesse sussurrare un ultimo segreto alla terra che l’aveva nutrita.
Un giorno, in quel giardino silenzioso, un giovane fotografo girovagava con la sua macchina fotografica al collo. Non era ancora nessuno, solo un ragazzo con una vecchia fotocamera e un sogno troppo grande per sembrare realistico. Cercava qualcosa, anche se non sapeva bene cosa.
Fu allora che la vide. La rosa, così fragile, piegata sotto il peso del tempo, eppure ancora così vibrante nella sua malinconica bellezza. Si avvicinò, trattenendo il respiro, come se temesse di disturbare quel momento sospeso tra il presente e l’eternità. Il cielo azzurro faceva da sfondo, le nuvole leggere sembravano danzare attorno a quella rosa, quasi a proteggerla.
Il fotografo alzò la macchina fotografica e scattò. Fu un solo scatto, ma bastò. Guardando l’immagine nel display, capì di aver catturato qualcosa di più di una semplice rosa appassita: aveva immortalato la poesia del tempo, la dignità della fragilità, la bellezza che persiste anche quando tutto sembra perduto.
E così, anche se il tempo continuava a scorrere, la rosa appassita trovò una nuova vita, non nei petali che si erano persi, ma nella memoria di chi sapeva vedere oltre il visibile.


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