Uragani e Farfalle

Storie brevi e fotografie


Tremo

“cado
mi rialzo e cado
di equilibrio in me
non ce n’è più e tremo
io mi copro e tremo
ma che scherzo è?
che mistero è?

mentre guido
mentre fumo
è già sera e fuori piove
in fondo al mio tè
dietro alle briciole
fra dolci parole
cosa ci fai?

mi vesto un sospiro
la città si sveglia
nel silenzio
tra la gente intorno a me
persa dentro ai loro caffè
invento facce stupide
e ti sento ridere

mentre guido tremo
mentre fumo tremo
sei l’equilibrio che non c’è
in tutto il mio disordine
io che rido e tremo
mangio meno e tremo
quel che ero ormai non mi tocca più
adesso ci sei tu ti sento e tremo

mentre guido tremo
mentre fumo tremo
sei l’equilibrio che non c’è
in tutto il mio disordine
sottovoce tremo
senza luce tremo
la tua voce che non basta
non mi basta
non mi basta mai

le tue mani
il tuo odore
chiudo gli occhi”

(tremo – rumorerosa)

Nancy accese una sigaretta con le dita che tremavano appena. La pioggia batteva leggera sul parabrezza, confondendosi con il battito irregolare del suo cuore. Guardava la città svegliarsi tra luci fredde e facce distratte. Tutto sembrava normale. Tutto, tranne lei.

Simona era tornata.
Non fisicamente, non ancora, ma nella voce registrata di un messaggio vocale, in quelle due parole lasciate ieri sera: «Ci sei?»

Due sillabe. Bastarono a farle saltare il sonno. Le erano rimbalzate nella testa tutta la notte, come una goccia che cade sempre nello stesso punto. Ci sei. Come se gli anni, il silenzio, le cicatrici, non fossero mai esistiti.

Nancy si era svegliata prima dell’alba, senza bisogno della sveglia. Si era seduta sul bordo del letto, cercando di trovare la forza di non ascoltare quel messaggio un’altra volta. Ovviamente lo fece comunque. Lo ascoltò tre, quattro, cinque volte. La voce di Simona era la stessa eppure diversa. Più bassa. Più lenta. Come se anche lei stesse tremando.

Adesso guidava senza meta, le mani strette sul volante, la mente annebbiata. Ogni semaforo sembrava darle un bivio che non sapeva più come attraversare.
Avrebbe voluto premere sull’acceleratore e andarsene. Ma verso dove?
Ogni strada sembrava portarla indietro.

A quando ridevano sul divano a imitare i passanti.
A quando si scrivevano poesie sui tovaglioli dei bar.
A quando bastava un caffè e uno sguardo per sentirsi al sicuro.

Ma ora?

Ora Nancy si svegliava tra lenzuola fredde, si vestiva in silenzio e fingeva di essere intera.
Simona era ovunque e da nessuna parte:
Nel profumo lasciato su una sciarpa.
Nel filtro della sigaretta che non finiva mai.
Nei sogni che iniziavano con un sorriso e finivano con un buco nello stomaco.

Era l’equilibrio che non c’era, il caos dolce nel suo disordine.
Una ferita elegante.
Un pensiero che non si lasciava pensare fino in fondo.

Quel giorno, quasi senza accorgersene, fermò la macchina davanti al bar dove si erano incontrate la prima volta.

Le mani le tremavano. Spense la radio che non stava ascoltando.
Guardò la vetrina appannata. Una figura era già lì, seduta da sola a un tavolo nell’angolo, con le spalle dritte e le mani strette attorno a una tazza.

Simona.
Era lì.
Era davvero lì.

Nancy chiuse gli occhi per un istante. Inspirò piano, come se volesse trattenere l’aria più a lungo possibile.
Poi spense il motore.
E scese.


Appena entrò, l’odore del bar la colpì come un ricordo improvviso: caffè bruciato, legno umido, un accenno di vaniglia troppo dolce, probabilmente dalla pasticceria lì accanto. Era un odore che non ricordava di ricordare, ma che adesso le fece tremare qualcosa sotto lo sterno.

Simona era lì. Davvero. Non un sogno, non una proiezione.
Seduta al tavolo in fondo, lo stesso tavolo di allora. La luce del mattino filtrava attraverso la vetrina, colpendo di taglio la sua figura, disegnandole i contorni con un’aura pallida.

Nancy la guardò senza muoversi.
Simona aveva i capelli un po’ più lunghi, più scuri forse, raccolti senza troppa cura. Indossava un cappotto beige, lo stesso che portava anche “prima”, ma adesso sembrava starle in modo diverso. Più pesante, come se si fosse abituato alla sua malinconia.

Poi Simona alzò lo sguardo. I loro occhi si incrociarono. Nessun sorriso. Nessun cenno. Solo uno sguardo lungo, stranamente fermo, in cui sembrava scorrere tutto il tempo che avevano saltato.

Nancy fece un passo, poi un altro. Ogni movimento le sembrava studiato, quasi irreale, come se stesse recitando una scena già vissuta mille volte nella mente.

Arrivò al tavolo e si sedette senza parlare. Le mani le tremavano appena, ma si costrinse a tenerle in vista, poggiate sul bordo del tavolo. Un gesto fragile, ma onesto.
Il silenzio tra loro non era imbarazzante. Era più simile a una stanza troppo piena per essere attraversata.
Un silenzio denso, carico di parole che si spingevano l’una sull’altra per uscire, e nessuna trovava il coraggio di farsi avanti.

Simona fu la prima a spezzarlo. «Sei venuta.»
Nancy fece un mezzo sorriso, stanco. «Hai detto “ci sei?”. E io… non sapevo se volevo esserci. Ma eccomi.»

Un cameriere si avvicinò, ma bastò uno sguardo di Nancy per fargli capire che quel tavolo aveva bisogno di tempo. Lui annuì, discreto, e sparì.

«Hai cambiato taglio», disse Simona, indicando vagamente i suoi capelli.
«Hai cambiato voce», rispose Nancy.
«Ho cambiato troppe cose, forse.»
«Io no. Ho solo imparato a fingere meglio.»

Un altro silenzio. Ma questa volta conteneva qualcosa di diverso: la fatica di due persone che si cercavano ancora nei lineamenti dell’altra. Che volevano ritrovarsi senza sapere se erano rimaste abbastanza da ritrovare.

Simona abbassò lo sguardo, avvolse le mani attorno alla tazza che aveva davanti, cercando calore in un caffè ormai freddo.
«Non sono venuta per chiederti di ricominciare», disse, quasi sussurrando.
Nancy annuì, come se in fondo lo sapesse.
«Non so nemmeno se sarei in grado di capire da dove si comincia», aggiunse Simona.

«Forse non si comincia», disse Nancy, guardandola negli occhi. «Forse si torna. Oppure si resta fermi. Oppure… si saluta.»

Un sorriso amaro sfiorò le labbra di Simona. «Ti ho sognata. L’altro giorno. Eri in una stanza piena di gente, ma non parlavi con nessuno. Guardavi fuori. E io cercavo di farti voltare.»
«Mi sono voltata?», chiese Nancy.

Simona la guardò a lungo. Poi scosse la testa. «No. Ma ti sei messa a ridere. E mi è bastato.»

Nancy abbassò gli occhi, mordendosi l’interno della guancia per non lasciar uscire niente. Nessuna parola, nessun tremore.
Ma tremava lo stesso.

«Mi sei mancata», disse Simona, come se fosse una confessione troppo piccola per tutto quel silenzio.
«Mi manchi ancora», rispose Nancy, e la sua voce, per un attimo, sembrò appartenere a qualcun’altra.

Poi si fece di nuovo silenzio. Un silenzio diverso, questa volta. Più lieve. Quasi una resa.

Simona abbassò lo sguardo verso la tazza. «Come stai?», chiese, e parve subito pentirsene. Era una domanda troppo semplice per contenere una risposta vera.

Nancy sorrise con la bocca, ma non con gli occhi. «Cado. Mi rialzo. E cado di nuovo.»

Simona chiuse gli occhi un istante, lasciando andare l’aria dal naso. Si passò una mano tra i capelli – un gesto che faceva anche quando era nervosa. «Anche io», disse. «Ogni giorno. Ma… adesso cado da sola.»

Nancy annuì, lo sguardo perso nella schiuma del cappuccino che un cameriere aveva appena lasciato al tavolo.
Poi alzò gli occhi e li piantò in quelli di Simona. «Perché mi hai scritto?»

Silenzio.

Simona giocherellava con un anello sottile al dito. «Perché sei l’unica persona che mi fa tremare anche quando non c’è.»

Le parole rimasero sospese, come vapore.

Nancy si rese conto che non respirava. Inspirò piano, profondamente, e poi si appoggiò allo schienale.

«E adesso?», chiese.

Simona non rispose subito. Guardò fuori. Le gocce di pioggia rigavano il vetro come piccole fratture nella scena.

«Adesso non lo so.»


L’estate – Il pavimento, i libri, la luce che non finiva mai

Nancy chiuse per un attimo gli occhi. Il rumore del bar svanì, come inghiottito da una stanza lontana. Un’altra luce, un altro tempo.
Una camera semi-buia d’estate, odore di zanzare schiacciate e incenso a metà, lenzuola leggere gettate a caso sul letto, finestre spalancate e tende bianche che danzavano lente nell’aria calda, come fantasmi stanchi.

Il ventilatore girava lento sopra le loro teste, ma non faceva granché. Faceva caldo, di quel caldo che ti si incolla alla pelle ma non ti dà fastidio, perché è condiviso.

Simona era seduta a terra, le gambe incrociate come una bambina troppo cresciuta, un libro aperto tra le mani.
Leggeva ad alta voce con una teatralità buffa, piegando la voce in mille forme: ora roca, ora acuta, ora strascicata. Ogni personaggio aveva il suo accento, la sua caricatura.

«E questo re qui,» disse, indicando un paragrafo con tono scandalizzato, «secondo me ha proprio la voce da imbecille viziato. Tipo così…»
E si mise a imitare un tono nasale e pieno di sé, con un’espressione ridicola che fece scoppiare Nancy in una risata quasi infantile.

Nancy era sdraiata sul letto a pancia in giù, i piedi nudi che si muovevano avanti e indietro nell’aria, come a segnare un ritmo. Il mento poggiato sulle mani, il viso mezzo nascosto tra le braccia.
Guardava Simona leggere e pensava che avrebbe potuto stare così per ore. Solo guardarla. Solo ascoltarla.

«Hai una voce per ogni persona che incontri?» chiese, senza ironia, solo con curiosità.

Simona fece spallucce, chiudendo il libro un attimo come se la domanda la costringesse a pensare.
«Solo per quelli che voglio ricordare.»

Nancy rimase in silenzio. C’era qualcosa di inaspettatamente tenero in quella risposta.
La guardava, sì. Ma non come si guarda qualcuno. La guardava come si guarda qualcosa che non si vuole perdere.
I capelli di Simona erano arruffati, le spalle nude, una canottiera troppo larga che scivolava un po’ da un lato. La luce dorata del pomeriggio le colava addosso, le accendeva i contorni.

Le ore passavano senza contorni anche loro.
E Nancy, in quel momento, non pensava al futuro, non pensava al tempo.
Pensava solo: È qui che voglio restare. Sempre qui.

E per un istante ci credette davvero.

L’autunno – Il parcheggio, la pioggia leggera, la voce che si spezza

Un altro scatto, stavolta più buio, più freddo.
L’autunno. Il cielo basso, incupito da nuvole che sembravano stremate, quasi pronte a svuotarsi. L’aria umida sapeva di qualcosa che stava finendo, di un ciclo che si stava esaurendo.

Il parcheggio del supermercato era deserto, solo qualche auto parcheggiata in fretta, pochi sguardi rapidi tra i corridoi di cemento. Un posto che sembrava vuoto anche di notte, ma che quella sera era il palco di una discussione che non sarebbe mai dovuta arrivare lì.

Nancy e Simona erano ferme davanti alla macchina, in un silenzio carico di parole che non avevano mai trovato un posto.
Nancy, le mani strette a pugno, i denti serrati. Il corpo rigido. Sembrava che la rabbia le scivolasse sotto la pelle, che ogni parola che usciva dalla sua bocca fosse una scossa che non riusciva a fermare.

«Non puoi sparire ogni volta che hai paura!» gridò, e la sua voce tremò, strappata dalla rabbia.
L’eco della frase sembrò risuonare più forte di quanto avrebbe voluto. Un grido nel vuoto.

Simona la guardò, ma non la guardò davvero. I suoi occhi erano sfocati, lontani, come se volessero scomparire con la nebbia che saliva dall’asfalto.
«Non sparisco. Mi proteggo!» rispose, con una voce bassa ma decisa, come una barriera invisibile tra di loro.

Nancy fece un passo in avanti, ma Simona non si spostò. Non le permise di avvicinarsi.
«Proteggerti da chi? Da me?» la sfidò, la voce rotta dal dolore che non si poteva contenere. Le parole le bruciavano come ferro caldo.

Simona tremava. Non c’era niente di teatrale, niente di melodrammatico: solo il corpo che reagiva, come se avesse voluto chiudersi in una camicia di forza invisibile. Si strinse il cappotto addosso, come se cercasse di trattenere qualcosa dentro di sé, o forse solo di fermare il mondo che continuava a cercare di entrare. La sua figura era piccola, fragile in mezzo alla vastità del parcheggio, sotto il neon che la illuminava in modo crudele, troppo freddo, troppo tagliente.

Il rumore delle gocce d’acqua sull’asfalto risuonava come una metronomo, lento, inesorabile. Il tempo sembrava marcire, ma le loro voci continuavano a tagliarlo in due.

Poi, con un sospiro profondo, Simona abbassò lo sguardo, come se avesse trovato la sua resa definitiva. «Io non so amare bene come te», disse, e quelle parole furono più di un’ammissione. Erano il cedimento di un muro che si stava sgretolando, una confessione che nessuna delle due voleva ascoltare, ma che arrivò ugualmente, spietata.

Nancy fece un passo avanti, come se volesse raccogliere quelle parole e tenerle strette. Ma qualcosa la fermò. Qualcosa che le gelò il sangue.
Simona si voltò senza aggiungere altro. Con un gesto veloce, salì in macchina, e il rumore dello sportello che si chiudeva fu definitivo, come il battito di una porta che si richiude su un passato.

Nancy rimase lì, immobile, fissando l’auto che stava partendo. Non riusciva a muoversi.
Per un momento, il mondo intero sembrò essere diventato distante, come se si fosse allontanato a una velocità insostenibile. Pensò, con un brivido sottile che le percorse la schiena: Se parte adesso, non tornerà.

Ma poi, la macchina si fermò. Non si allontanò. Si fermò solo per un istante. E poi, in un movimento che Nancy riconobbe come un atto di forza, Simona riaccese il motore. L’auto si mise in moto e sparì, ma non prima di averle lasciato quella sensazione bruciante, l’amaro di una separazione che aveva solo rimandato il suo arrivo.

Eppure, tornò. Ancora. Per un po’.

L’inverno – La paura e la solitudine condivisa

Nancy chiuse gli occhi di nuovo. La memoria la travolse con un altro ricordo, e questa volta, il tempo sembrava essere fermo, intrappolato tra le mura di una casa che non esisteva più.

Era una sera di inverno, troppo silenziosa per essere normale. Il freddo aveva penetrato i muri, ma dentro l’appartamento c’era una luce calda, quella delle luci di Natale che Simona aveva messo con una cura strana, come se cercasse di costruire qualcosa che non fosse mai stato abbastanza.
Erano su un divano, le gambe intrecciate, i volti vicini. Non c’era bisogno di parole. Solo la musica di sottofondo, un sottofondo che nemmeno loro avevano scelto, ma che in quel momento sembrava perfetto.

Simona aveva appena acceso una sigaretta, il fumo che usciva dalla sua bocca come una nuvola che riempiva lo spazio tra di loro, creando una distanza invisibile, ma anche un’intimità strana, come se respirare lo stesso fumo fosse un atto di connessione silenziosa.

«Senti, Nancy…» Simona aveva detto, mentre passava una mano tra i suoi capelli. C’era qualcosa nel suo tono che la rendeva più vulnerabile, qualcosa che raramente mostrava. Ma Nancy l’aveva già capito. Quel tono non prometteva niente di buono.
«Cosa?» rispose Nancy, senza guardarla, persa nei suoi pensieri.

Simona fece una piccola pausa. Quando parlava così, le sue parole sembravano pesare più del solito. «Mi fai paura, a volte.»
Nancy si bloccò, ma non alzò lo sguardo. La frase le fece male come una freccia che le attraversava il petto, ma non riusciva a rispondere subito. Si sentì più piccola, improvvisamente più fragile.

Simona tirò una boccata di fumo, lo lasciò uscire lentamente, come se volesse far uscire anche il peso di quella confessione. Non c’era rabbia, non c’era disprezzo nelle sue parole, solo una verità che Nancy non voleva sentire.
«Perché, Simona?» Nancy trovò la voce, ma non riuscì a guardarla.
«Perché…» Simona si fermò, come se avesse paura di dire troppo, ma alla fine continuò. «Perché non ti arrendi mai. Mai. Anche quando sarebbe più facile. E io… io non so come fare. Non so come stare al passo.»

Le parole si fermarono a metà. Nancy le sentiva scivolare nel silenzio della stanza, ma non riusciva a raccoglierle. Non c’era niente di doloroso nei gesti di Simona, ma c’era una distanza, una piccola frattura che si faceva sempre più larga.

Nancy si alzò dal divano, camminando lentamente verso la finestra. Guardava fuori, come se cercasse una risposta nel buio che stava fuori, ma la verità era che non sapeva cosa rispondere. Non sapeva come fermare quel vuoto che si stava allargando tra di loro.

«Tu pensi che io non abbia paura?» disse, con un filo di voce.
Simona non rispose subito. Continuava a guardarla con occhi scuri, come se volesse leggere qualcosa in lei che non riusciva a vedere.
Poi, senza alzarsi, rispose: «Sì. Lo penso.»
Nancy chiuse gli occhi per un istante, ma non c’era sollievo, solo il rumore di una solitudine che si stava facendo più grande.

«E allora dimmi cosa devo fare.»
Simona la guardò, un sorriso triste che non riuscì mai a diventare tale. Non c’era risposta, solo il respiro di una notte che sembrava infinita.
E le ore passarono, come sempre, senza lasciare segno. Solo il suono della sigaretta che si spegneva lentamente.

La primavera – Quella panchina e non riuscire ad esserci

Il rumore del bar tornò sfocato, lontano. Nancy si lasciò trasportare da un’altra immagine, l’ultima volta in cui tutto era ancora possibile, ma qualcosa dentro di lei – o dentro Simona – aveva già deciso.

Era primavera.
Una di quelle giornate tiepide, in cui il sole non scotta e il vento sa di finestre aperte e panni stesi. Il cielo era limpido, ma non sereno. C’era qualcosa nell’aria, una tensione leggera, quasi impercettibile, come l’elettricità prima di un temporale che nessuno prevede.

Nancy e Simona erano sedute su una panchina in un parco quasi vuoto. Una panchina qualunque, ma che per loro era sempre stata quella. Il posto dove si erano baciate la prima volta, dove avevano sognato viaggi che non avevano mai fatto. Dove avevano riso così tanto da avere male alla pancia.

Ma quel giorno, la panchina sembrava più stretta.
Nancy aveva portato due caffè d’asporto, uno zuccherato, uno amaro. Il solito piccolo rito. Simona lo prese, sorrise appena, ma non bevve. Il bicchiere rimase tra le sue mani, ancora chiuso.

«Sei strana oggi,» disse Nancy, provando a rendere la sua voce leggera.
Simona scrollò le spalle. «Solo stanca.»

Silenzio. Di quelli densi, che ti si infilano tra le costole.

Nancy la guardò di lato, studiò il modo in cui teneva lo sguardo basso, fisso su un punto qualunque davanti a sé.
La conosceva troppo bene per crederle.

«Parliamone, se vuoi.»
Simona fece una piccola risata, quasi impercettibile. «Non so nemmeno da dove cominciare.»

«Dal punto in cui mi hai lasciata fuori.»
Era una frase uscita di getto, più dura di quanto Nancy volesse. Ma era vera. Da settimane, forse mesi, qualcosa si era spento, e lei continuava a bussare a una porta chiusa con troppi giri di chiave.

Simona non rispose. Continuava a fissare il nulla.
Il sole le accarezzava i capelli, ma sembrava non toccarla davvero. Era lì, ma distante. Come un’eco.

«Ti ho chiesto solo di esserci,» disse Nancy. «Non di essere perfetta.»

Simona chiuse gli occhi per un momento. Poi li riaprì, lenti. Dentro c’era tutto: affetto, stanchezza, paura.
«A volte esserci è proprio la cosa che non riesco a fare.»

Le parole rimasero lì, sospese. Come piume pesanti.
Nancy si girò verso di lei, le prese la mano. Non per convincerla, non per trattenere. Solo per dire: Io ci sono ancora.

Simona non la ritrasse. Ma nemmeno la strinse.

Il tempo sembrò fermarsi per un istante. Nessuna lacrima, nessun grido. Solo due persone che si perdevano senza nemmeno alzare la voce.

Poi, una cicala cominciò a cantare da qualche parte. Un rumore qualunque. Un suono come tanti. Ma Nancy lo avrebbe ricordato per sempre.

La notte – Il silenzio, il tremore, la pace che non sapeva di futuro

L’ultima immagine non arrivò subito, ma più tardi. Quando Simona si stava asciugando le mani con un fazzoletto spiegazzato, lo sguardo perso oltre il vetro appannato del bar. Guardava la pioggia che cadeva stanca, con quella concentrazione che si ha solo quando si cerca di pensare ad altro.

Nancy la osservava, senza dire nulla. Qualcosa in quel gesto le fece tornare alla mente una notte lontana, e fu come se il corpo reagisse prima del pensiero. Le dita le formicolarono. La gola si chiuse appena.

Era inverno inoltrato, uno di quei ritorni a casa lenti, in macchina, con la radio spenta e il mondo che sembrava dormire.
Pioveva da ore.
La strada era lucida, un serpente d’asfalto su cui si riflettevano le luci dei lampioni: lunghe, tremolanti, come comete in fuga. I tergicristalli andavano lenti, quasi ipnotici. Nancy guidava con entrambe le mani sul volante, ma ogni tanto ne staccava una per sistemarsi la sigaretta tra le labbra.

Simona dormiva accanto a lei.
Aveva la testa inclinata verso il finestrino, la guancia sfiorata da qualche ciocca umida, la sciarpa che le avvolgeva il collo in modo disordinato. Dormiva con la bocca appena socchiusa, la respirazione profonda, regolare. E una mano — quella sinistra — era aperta verso il sedile centrale, come se inconsciamente cercasse qualcosa.
Nancy la guardò, solo per un istante. Poi tornò alla strada. Ma sentiva tutto. Ogni respiro. Ogni piega del suo corpo addormentato. Ogni centimetro di distanza.

Fumava. E tremava.
Non era solo il freddo che filtrava da sotto il cruscotto, o la stanchezza che le pungeva le palpebre. Era altro.
Era la consapevolezza — quella silenziosa e crudele — che quel momento non sarebbe tornato. Che forse, dentro quella macchina, stavano vivendo il loro ultimo vero frammento di pace.

Non parlavano.
Non si guardavano.
Ma c’era qualcosa di sacro in quel silenzio.
Un’intimità che nessuna parola avrebbe saputo raccontare.

Nancy guidava più piano del solito. Per allungare la strada. Per non svegliarla. Per restare ancora un po’ in quella bolla sospesa.
Sentiva una strana forza nascere dentro: il bisogno di proteggere, di custodire. Di fermare il tempo.
Eppure sapeva.
Sapeva che non avrebbe potuto farlo.

Le bastava una cosa sola, in quel momento: la mano di Simona, posata lì, aperta, disponibile.
Non la toccò. Non la strinse.
La guardò. La portò con sé.
E pensò — con una lucidità che le fece male —: Anche se finisce, io questa notte non la scorderò mai.


Fuori, la pioggia aveva smesso da un po’, ma le gocce continuavano a scivolare lente dai tetti, come lacrime che non vogliono decidersi a cadere. Ogni tanto, una si schiantava contro il vetro e correva giù, tracciando una scia sottile e stanca. La luce del giorno filtrava appena, opaca, sporcata dal cielo ancora gonfio di nuvole.

Dentro, il bar sembrava trattenere il fiato.

Simona guardò l’orologio al polso, più per farsi coraggio che per reale necessità. Il tempo era passato in silenzio, senza rumore, come l’acqua che filtra sotto una porta chiusa. Nessuna delle due sapeva bene cosa dire, cosa chiedere. Avevano sfiorato parole, sorvolato ricordi, accennato al passato senza toccarlo davvero. Forse avevano detto abbastanza.
O forse era proprio quello il problema: non c’era più nulla da dire.

Nancy la osservava. Non con rabbia, né con nostalgia. Ma con quello sguardo sospeso che si ha quando si guarda un oggetto che un tempo si usava ogni giorno, e ora si tiene in un cassetto, senza sapere se buttarlo o tenerlo per sempre.
Un oggetto amato. Logorato. Ancora carico di significati. Ma inutile, ormai.

Simona inspirò piano, come se volesse conservare l’aria di quel momento. Poi parlò.
«Ti scriverò.»
La sua voce era bassa, misurata, come se non volesse disturbare niente.
Si alzò con calma. I movimenti erano lenti, quasi rituali. Nancy non rispose. Fece solo un cenno vago con la testa, qualcosa che poteva essere un sì, un addio o un semplice respiro. Non si alzò. Non si sporse. Rimase seduta, le mani strette attorno alla tazza ormai fredda, lo sguardo ancorato a un punto indefinito, nel vuoto.

Simona infilò il cappotto. Ogni gesto era una rinuncia. Si aggiustò il colletto, infilò le mani nelle tasche. Sembrava dire addio a qualcosa che le era ancora dentro, ma che sapeva di dover lasciare andare.
Quando fu alla porta, si voltò. Cercò gli occhi di Nancy, come a cercare un segno, un appiglio.
Ma Nancy non la stava più guardando.
O forse sì — ma da un luogo troppo lontano per essere raggiunto.

La porta si aprì. Il campanello trillò piano, come un piccolo gong funebre.

Simona uscì.
La pioggia non c’era più, ma il mondo era bagnato e opaco. L’aria aveva l’odore delle cose finite.
E il mondo la inghiottì senza far rumore.

Nancy restò.
Seduta. Presente solo nel corpo. Tutto il resto era altrove.
Il bar era tornato alla sua normalità: risate in sottofondo, tazzine poggiate sui piattini, conversazioni che rimbalzavano leggere tra i tavoli.
Lei era l’unica cosa ferma. Un dettaglio immobile in mezzo al movimento. Un punto. Una pausa.

Accese una sigaretta con le dita che tremavano appena. Inspirò lentamente.
Guardò fuori dalla finestra, dove la gente si affrettava sotto gli ombrelli, tra le luci gialle dei lampioni e i passi veloci che attraversavano la sera.

Si chiese se Simona fosse già lontana.
Si chiese se davvero, un giorno, avrebbe potuto dimenticarla.
Poi abbassò lo sguardo, e rimase così.
In silenzio.
Immobile.
Tremava.


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