“Come, dove sei?
Adesso!
Forse sentirai…
Un crollo!
Quando ti parlavo piano
Quando dicevi una parola in più
Che a suon di concerti ci ho preso la mano
Ed era la stessa che stringevi tu
Come, dove sei?
Adesso!
Forse sentirai…
Un crollo!
Quando tenevo più forte
Quando cercavi di tirarmi su
Che ad ogni tramonto fermavo l’istante
Scattando le foto che guardavi tu
Io provo tutto
E fa male davvero
Ogni tuo movimento
Ogni pensiero
Io provo tutto
Perché fisso la gente da anni
E quando colpisci so già cosa provavano gli altri
Un bacio più intenso
La gonna che si sfila lenta
Le mani sul viso
Provo ancora di tutto qui al buio”
(Annabelle – Fast animals and slow kids)
1. La casa vuota
Il pomeriggio in cui varcai la soglia della casa del nonno, l’aria profumava ancora di legno vecchio e lavanda. Il sole filtrava dalle tende spesse, lasciando strisce d’oro sul pavimento, come se anche la luce fosse rimasta a dormire. Un silenzio profondo avvolgeva ogni angolo, un silenzio che mi fece sentire stranamente estraneo, come se la casa avesse dimenticato chi fossi.
Non era la prima volta che venivo lì, ma per qualche ragione, quel giorno — dopo il funerale — la casa sembrava diversa. Immobile. Come in attesa. Forse era la polvere che non si alzava più, forse il tempo che sembrava essersi fermato nel momento in cui il nonno non c’era più.
Mi tolsi le scarpe, istintivamente. Come quando ero bambino e la nonna mi sgridava:
“Entra scalzo, amore, il parquet sente il rispetto.”
Sorrisi. La sentii dire quella frase come se fossi ancora seduto sul tappeto a costruire piste per le macchinine, mentre lei sorrideva dal suo angolo della stanza.
Mi aggirai tra le stanze. Tutto era rimasto com’era. Un plaid piegato con cura, due tazze nel lavandino, le pantofole del nonno affiancate sotto il divano. I ricordi si intrecciavano con gli oggetti, come un filo sottile che univa il passato al presente. Mi sedetti sulla sua poltrona. Pesava. Non solo per il suo aspetto massiccio, ma per il vuoto che sentivo dentro, come se il suo corpo, il suo spirito, vi fossero ancora seduti sopra.
Poi vidi il tavolo.
Sparse sopra c’erano decine di fotografie. Alcune in bianco e nero, altre a colori sbiaditi dal tempo. Volti giovani, mani intrecciate, abbracci rubati. E sempre loro due. Il nonno e la nonna. In ogni immagine, come due attori della stessa storia, che si ripeteva in modi diversi. La nonna sorrideva con il viso luminoso, il nonno la guardava con quella calma serena che lo contraddistingueva. Sembravano invincibili. Immortali.
Sotto una foto trovai un foglio piegato in quattro. La scrittura tremolante era quella del nonno.
“Se stai leggendo, allora vuol dire che sei qui.
Qui dove è rimasto tutto. Anche lei.”
Il respiro mi si fermò. Non avevo mai visto quel foglio, non l’avevo mai notato. L’odore dell’inchiostro mi riportò a un altro tempo, come se ogni parola avesse una storia che non conoscevo. Il foglio sembrava essere stato piegato e ripiegato più volte, come se il nonno non avesse mai trovato il coraggio di sistemarlo definitivamente, o forse come se volesse che fosse letto, ma solo da chi fosse pronto a capirlo.
2. Come, dove sei?
Come, dove sei?
Me lo chiedo ogni mattina da quando te ne sei andata.
Non riesco più a parlare forte. Nemmeno coi vivi, figuriamoci con te. Ma il pensiero lo urlo, dentro. E ogni volta, mi sembra che qualcosa, da qualche parte, risponda, come un’eco che sfuma via troppo in fretta.
La tua poltrona è ancora accanto alla finestra. L’ho lasciata com’era, come se aspettassi che ti alzassi da un momento all’altro. Anche il tuo libro è lì, aperto a pagina 112, come l’avevi lasciato. L’ultima sera ti addormentasti proprio su quel capitolo.
“Non ho finito, non dirmi nulla,” mi dicesti, senza nemmeno aprire gli occhi.
“Ti aspetto domani per leggerlo insieme.”
Non c’è stato un domani.
Il libro è ancora lì, il capitolo incompleto, il segno del tempo che ha fermato ogni promessa.
Ogni giorno, la casa sembra più vuota. La tazza che usavi per il tè ha ancora l’impronta del tuo rossetto, quel rosa che metteva solo la domenica, quando ti preparavi come una ragazzina. Dicevi che il rosa “non era da vecchia”, e ti guardavi allo specchio come se fossi ancora quella giovane che non aveva paura di invecchiare.
Ti chiamavo “la mia adolescente in pensione” e tu ridevi forte, con quella risata che mi toglieva gli anni di dosso.
“Sai che giorno è oggi?” ti avrei chiesto.
“Uno qualunque, finché non mi guardi.”
Ora ogni giorno è uno qualunque. Nessuno mi guarda più. La tazza è lì, silenziosa, come il resto della casa.
La poltrona accanto alla finestra è vuota, ma non solo fisicamente. È vuota di te, del tuo respiro, della tua presenza. Ogni volta che ci passo vicino, mi sembra che le sue linee curve e morbide siano ancora impresse nell’aria, ma più di tutto sento il silenzio che cresce, come un’onda che mi sommerge.
Mi siedo, e guardo la tua poltrona. Non riesco a distogliere lo sguardo. I cuscini sono schiacciati come se tu ti fossi appena alzata.
Mi sembra che ci sia qualcosa che mi aspetta, una risposta che non arriva mai. Eppure, anche nel silenzio, sento una tua voce che mi sussurra. Una voce che non riesco a fermare, che non voglio fermare, come una melodia lontana che non ha più bisogno di parole.
3. Il tavolo delle foto
Cominciai a sfogliare le fotografie, una a una. Le mani mi tremavano appena, come se toccare quelle immagini significasse svegliare qualcosa che dormiva da troppo tempo. Alcune erano lucide, altre opache, con gli angoli piegati dal tempo. Ma tutte sembravano vive. Non semplicemente viste: sentite.
Sul retro, appunti tracciati a matita, sbiaditi ma ancora leggibili.
“Primo ballo in cucina – 1972”
“Lei ride. Io inciampo.”
“Scatto rubato, lago di Garda – 1980”
Ogni scritta era una specie di sussurro che mi riportava a un’epoca che non avevo vissuto, ma che conoscevo. Era come se il nonno avesse trasformato ogni foto in una piccola poesia.
Le mani di lei che accarezzano il viso di lui, gli occhi di lui che cercano sempre lei. In ogni immagine, qualcosa sfuggiva alla lente: il tempo, forse. Ma anche il desiderio disperato di trattenerlo.
Poi, una frase mi colpì.
Era scritta in corsivo più marcato, come se fosse stata scritta in un giorno in cui il cuore pesava più del solito.
“Ogni sera, lei metteva via il giorno. Io lo fotografavo.”
Mi bloccai. Rimasi a fissarla. Quelle parole erano una chiave. Un’apertura.
E lì cominciai a capire.
Non erano solo ricordi.
Non erano nemmeno solo fotografie.
Era un modo per trattenerla, per non farla andare via del tutto.
Per illudersi che, se il momento era stato fermato, allora forse lei lo era ancora. Da qualche parte.
Guardai di nuovo il tavolo. Era il suo altare. E le fotografie, le sue preghiere.
4. Quando scattavo per te
Ogni tramonto, ogni luce morbida che entrava dalla finestra, tu ti voltavi e dicevi:
“La stai già fotografando?”
“Sempre. Tu, la luce. Non saprei chi scegliere.”
Mi guardavi di traverso, fingevi di lamentarti. “Ma ti sembro pettinata?”
E io ridevo. Perché sapevo che restavi lì, ferma, solo per farmi contento.
Sapevi che sarebbe venuta bene solo se eri tu a riempire l’inquadratura.
Scattare era il mio modo per fermare il tempo, anche quando non lo dicevo. Forse non capivi quanto fosse importante finché, anni dopo, ci ritrovammo a riguardarle tutte, seduti vicini sul divano, in un giorno di pioggia.
“Questa sono io?”
“Sì. La parte più vera di te.”
Sorridevi, ma non dicevi niente. Ti voltavi a guardare fuori dalla finestra, come se avessi bisogno di nascondere quel piccolo tremito agli angoli della bocca.
Quello era l’unico modo che avevo per restare. Per restare lì con te, anche nei giorni in cui il tempo sembrava volerci spingere via.
Ogni foto era un “ti amo” non detto, un “non te ne andare” silenzioso.
5. Un crollo
La prima volta che sentii il crollo fu in cucina.
Era una mattina come le altre. Il bollitore fischiava piano. Il sole entrava pallido, e per un attimo pensai che potesse essere domenica.
Aprii la credenza e vidi la tua tazza, quella col bordo scheggiato che non volevi mai buttare.
“Ha il sapore delle domeniche lente,” dicevi.
Quella tazza sapeva di risvegli tardivi, di biscotti intinti senza fretta, di silenzi condivisi.
Mi appoggiai al tavolo, le mani che tremavano, e mi lasciai scivolare sulla sedia. Non piansi. Non ancora.
Ma qualcosa dentro si spezzò. Non fece rumore.
Non fu come un bicchiere che cade e va in frantumi.
Fu più simile a un ramo secco che si spezza nel bosco, senza testimoni.
O a una corda tesa che si slaccia piano.
Un vuoto improvviso. Un’assenza che non urla, ma ti svuota.
Era questo che intendevo, quando scrissi quelle parole:
“Forse sentirai… un crollo.”
Non era fragore. Non era rumore.
Era silenzio. Un silenzio assoluto, che veniva da dentro.
E da allora, anche il rumore del cucchiaino contro la tazza sembrò suonare falso. Perché mancava la tua risata, il tuo commento, lo sguardo divertito.
Quel giorno, non persi solo te. Persi anche la mia voce.
6. Le prove dell’Amore
Continuavo a leggere il foglio scritto dal nonno. Ogni frase era una finestra spalancata su un mondo che non conoscevo. Non un diario, ma un testamento d’anima. Ogni riga sembrava incisa col tempo, come se ogni parola fosse passata attraverso il dolore, la gioia, la pazienza, l’attesa.
Mi vergognai un po’, lo ammetto. Avevo sempre visto i miei nonni come due figure dolci, affiatate, ma tranquille. La loro casa profumava di biscotti, di stufe accese, di maglioni di lana e coperte stese sulle gambe. Il loro amore, ai miei occhi, era fatto di routine e di tenerezze silenziose, come due alberi che crescono vicini per decenni, intrecciandosi senza far rumore.
Non avevo mai immaginato che dietro quegli sguardi si nascondesse una storia tanto viva. Tanto intensa.
Mi alzai, quasi con urgenza, e iniziai a cercare. Aprii cassetti che non avevo mai toccato, sfogliai gli album, sollevai cuscini, come se la verità fosse lì, da qualche parte, pronta a farsi scoprire.
Dietro una cornice con una vecchia foto sbiadita, trovai una scatola di latta. Sembrava anonima. Era lì, nascosta in bella vista.
Dentro, c’erano lettere. Decine.
Lettere d’amore. Alcune con la carta ingiallita, altre ancora profumate, altre sgualcite come se fossero state strette a lungo. Alcune non erano nemmeno state spedite, ma conservate con una calligrafia tremante che riconobbi subito: il nonno.
Ne aprii una a caso. Lessi piano, come si legge qualcosa che potrebbe cambiare tutto.
“Amarla era provarci sempre. Anche quando dimenticava il gas acceso. Anche quando rideva al cinema nel momento sbagliato. Anche quando smetteva di parlare, e mi costringeva a capirla in silenzio.”
Mi sedetti sul pavimento, le lettere sparse attorno a me.
Avevo pensato che l’amore fosse fatto di parole dolci e mani intrecciate.
Ma ora sapevo che era molto di più.
Era resistenza.
Era cura, pazienza, dedizione feroce.
Era restare quando tutto diceva di andare.
Era esserci sempre, anche quando era difficile.
Anche quando era scomodo.
Anche quando l’altro diventava un enigma da decifrare giorno per giorno.
7. Quando tenevo più forte
“Sei stanca?”
“Un po’. Oggi le gambe non mi seguono.”
Le prendevo il braccio con una lentezza voluta, come si tiene qualcosa di sacro, fragile ma potente. Come si regge un giuramento.
Lei appoggiava la testa sulla mia spalla e sospirava piano:
“Se non ci fossi tu, cadrei ogni giorno.”
“Ma io ci sono.”
“E se non ci fossi più?”
“Allora ti scriverei ogni sera, anche senza mani.”
Non erano solo parole.
Era una promessa che avevo fatto a me stesso molto tempo prima, quando l’avevo scelta.
Non solo per i giorni felici, ma per quelli in cui l’ombra si sarebbe allungata e la memoria si sarebbe fatta nebbia.
A volte mi sembrava di sorreggerla. Di tenerla in piedi, di farle da bastone invisibile. Ma più passava il tempo, più capivo che era lei a tenere in piedi me.
Con il suo sguardo che mi riconosceva anche nei giorni grigi. Con quella forza silenziosa che aveva anche quando dimenticava le parole.
Ogni volta che la stringevo un po’ di più, sentivo che era lì, viva. Intera.
Che nonostante tutto, nonostante le fragilità, c’era un nucleo intatto dentro di lei che rispondeva al mio amore. E che sapeva. Sempre.
8. Il ricordo come testimone
In salotto, notai un album più vecchio degli altri. Era sotto un mobile, con la copertina rovinata, come se fosse stato sfogliato mille volte e poi dimenticato solo per pudore, non per disinteresse. Lo presi con cautela, come si prende una reliquia.
Ogni pagina era divisa in due: a sinistra la fotografia, a destra una frase.
Uno scatto, una voce.
Uno sguardo, una dichiarazione.
Alcune frasi erano ironiche, altre lievi. Ma poi ne trovai una che mi fece restare immobile.
Foto: loro due, seduti su una panchina, mano nella mano.
Frase: “Non serve parlare se abbiamo lo stesso silenzio.”
Mi vennero i brividi.
Quel silenzio, che io avevo sempre creduto vuoto, era invece pieno.
Un linguaggio costruito negli anni. Uno che non aveva bisogno di grammatica, solo di presenza.
Gesti che si ripetevano come preghiere, abitudini che diventavano rituali: il modo in cui lui le tagliava la mela, il modo in cui lei gli accarezzava la manica prima di uscire.
Era così che avevano costruito tutto.
Un alfabeto intimo fatto di sguardi, di pause che dicevano più di mille parole.
Un amore che aveva imparato a parlare nel silenzio.
E quel linguaggio, incredibilmente, viveva ancora lì.
In quella casa, tra quelle pareti.
Nel modo in cui la luce cadeva sul tappeto, nel profumo ancora vivo delle sue sciarpe, nei rumori attutiti del parquet sotto i piedi scalzi.
Il ricordo non era solo memoria.
Era testimone.
E io, forse per la prima volta, cominciavo a comprendere davvero ciò che avevano condiviso.
9. Quando rideva ancora
L’ultima estate insieme fu anche la più bella.
Non lo sapevamo ancora. E forse, proprio per questo, lo fu davvero.
Era come se il tempo ci avesse concesso un dono, all’improvviso: una tregua. I giorni erano lenti, i pomeriggi lunghi e pieni di luce, e lei rideva ancora.
Rideva come una ragazza. Di quelle risate piene, contagiose, che le facevano chiudere gli occhi e inclinare la testa all’indietro, come se il mondo potesse aspettare.
Un giorno le proposi di ballare in giardino. Era una di quelle idee che fanno bene all’anima anche solo a pronunciarle.
“A quest’ora? Ma ti rendi conto che ci vedono i vicini?”
“E allora? Che imparino.”
“A fare cosa?”
“Ad amarsi come noi.”
Rise. Ma venne. Scalza, con il vestito di lino che amava da sempre e i capelli sciolti.
Avevamo un vecchio stereo a pile e una cassetta che gracchiava canzoni lente.
Lei si appoggiava a me come quando eravamo ragazzi. Non per bisogno, ma per scelta.
E io la tenevo stretta, come si tiene una cosa fragile. Ma anche forte. Forte di tutti quegli anni, di tutte le cadute, le attese, i ritorni. Forte del noi che avevamo costruito.
Ballammo tra le ortensie, con le ombre degli alberi che ci coprivano come tende leggere.
E in quel momento, con le mani intrecciate e la sua guancia contro la mia, seppi che stavo vivendo un ricordo futuro.
Uno di quelli che non muoiono mai.
10. Noi
Quando chiusi l’ultima scatola, avevo gli occhi lucidi.
Non di tristezza, ma di riconoscenza. Di quella commozione piena che arriva quando si scopre una verità profonda, nascosta nel cuore delle cose semplici.
Avevo conosciuto mia nonna davvero solo ora, attraverso lo sguardo di chi l’aveva amata più di sé stesso.
Avevo visto mio nonno spogliato del suo silenzio burbero, delle sue abitudini da uomo d’altri tempi. Avevo visto l’uomo. Il compagno. Il poeta silenzioso di un amore quotidiano.
E in quel momento capii.
Capii che non potevo lasciare tutto questo tra le mura di quella casa.
Scelsi con cura: le fotografie in cui i sorrisi sembravano parlare, le lettere in cui le parole pesavano come promesse, le frasi scritte a margine, sulle foto, nei biglietti, sui tovaglioli.
Iniziai a comporre un libro.
Un diario a due voci. Un romanzo senza invenzioni. Un’opera che non voleva essere bella, ma vera.
Lo intitolai semplicemente: “Noi.”
Perché non era solo la loro storia.
Era anche la mia.
Era l’eredità invisibile che mi avevano lasciato: l’arte di amare con pazienza, senza clamore, fino alla fine.
E oltre.
Epilogo – Qualche anno dopo
La luce del pomeriggio entrava ancora dalla stessa finestra.
Sempre quella, con le tende spesse che filtravano l’oro come una benedizione lenta.
Il parquet sotto i piedi brillava, punteggiato di riflessi.
La casa non era più silenziosa.
Ogni tanto si sentiva una voce. Una canzone bassa dalla radio. Una risata.
Di quelle vere, che escono dalla pancia e fanno vibrare le stanze.
Lui era seduto sulla poltrona del nonno. Le gambe accavallate, un libro aperto in grembo che non stava davvero leggendo.
Lo teneva lì, ma gli occhi vagavano verso la mensola, come ogni giorno.
Lì, accanto alla vecchia fotografia in bianco e nero dei nonni sul molo — lei che rideva con la testa inclinata, lui che la guardava come si guarda il tempo — c’era una nuova foto.
Una in cui c’era lui.
E accanto a lui, lei.
La sua lei.
La mano di lei gli toccava appena il volto. Un gesto semplice. Ma nei loro occhi c’era tutto.
Chi li guardava, poteva leggerlo chiaramente:
avevano imparato ad amare.
Un passo alla volta.
Senza fretta.
Con presenza.
Sul tavolino, accanto alla tazza ancora calda, c’era una copia consunta di un piccolo libro rilegato a mano:
“Noi – La storia che mi ha insegnato ad amare.”
Il giovane uomo sorrise.
Poi chiuse gli occhi.
E sussurrò, come il nonno tanti anni prima:
“Come, dove sei?”
E da dentro qualcosa rispose, silenziosamente.
“Qui.”


Lascia un commento