Uragani e Farfalle

Storie brevi e fotografie


Altalene

Resto al coperto, il punto è quello giusto
Per giudicare senza mai attirare l’attenzione
Io non mi espongo, è più difficile sbagliare
Annuisco sempre e tu mi credi migliore
Vorrei trovare un modo per vincere le guerre
Vorrei trovare il giorno in cui non ti ho più fatto entrare
Ti dico che va tutto bene, anche se cado a pezzi
Come nei parchi fanno le altalene
Tu non guardarmi dentro, non c’è niente da vedere
E poi è da una vita che non metto a posto bene
Vorrei trovare un modo per vincere le guerre
Vorrei trovare il giorno in cui non ti ho più fatto entrare
Ti dico che va tutto bene, va tutto bene
Ti dico che va tutto bene, anche se cado a pezzi
Come nei parchi fanno le altalene
Ti giuro, ti farei vedere i locali in cui
Tutte le notti provo ad annegare
Ti dico che va tutto bene, va tutto bene
So che non verrai a cercarmi
Perché Il mio tocco brucia tutto più del sole
Ti ho chiesto di portarmi cento soluzioni
Tu c’eri, ma quella notte io dormivo fuori
Ti dico che va tutto bene, anche se cado a pezzi
Come nei parchi fanno le altalene
Ti giuro, ti farei vedere i locali in cui
Tutte le notti provo ad annegare
Ti dico che va tutto bene (Anche se cado a pezzi)
Anche se cado a pezzi (Va tutto bene)
Come nei parchi fanno le altalene (Come nei parchi)
Ti giuro, ti farei vedere (Va tutto bene)
I locali in cui (Anche se cado a pezzi)
Tutte le notti provo ad annegare (Tutte le notti)
Ti dico che va tutto bene (Anche se cado a pezzi)
Anche se cado a pezzi (Va tutto bene)
Come nei parchi fanno le altalene (Come nei parchi)

(Altalene – Cara Calma)

Prologo 

Il parco dormiva sotto un cielo senza stelle. Non era buio completo, ma una penombra grigia, lattiginosa, che rendeva ogni contorno incerto, come se la realtà esitasse a mostrarsi. Il cancello arrugginito gemeva piano, oscillando al minimo tocco del vento, e quel suono somigliava al lamento di un animale ferito.

Le altalene, più avanti, si muovevano da sole. Lente, regolari, come se mani invisibili avessero continuato a spingerle attraverso gli anni, incuranti del tempo e dell’abbandono. Ogni gemito metallico si confondeva con il fruscio delle foglie, ma aveva qualcosa di diverso: un ritmo che sembrava ricordare, o chiamare.

Federico si fermò a pochi passi, le mani affondate nelle tasche, il cuore che batteva più in fretta del dovuto. Ogni volta che tornava lì, avvertiva la stessa vertigine: come se quell’angolo di mondo fosse rimasto sospeso in un presente eterno, intrappolato tra memoria e sogno. Bastava oltrepassare il cancello per sentire che il tempo, dentro quel perimetro di alberi e ghiaia, non scorreva come altrove.

Eppure, ogni volta, cedeva.

Fece un passo avanti. La ghiaia scricchiolò sotto le suole, e il rumore, pur minimo, parve eccessivo in mezzo a quel silenzio gonfio. Le catene delle altalene gemettero più forte, come se avessero percepito il suo ingresso. Federico trattenne il fiato, e in quell’istante – breve come un battito – gli parve di distinguere una risata. Lontana, spezzata, ma familiare.

Chiuse gli occhi. L’aria gli si infilò nei polmoni, gelida e troppo densa.
E poi la sentì.

Una voce.
Appena un sussurro, ma nitido.

«Sei in ritardo.»

Un brivido gli corse lungo la schiena. Aprì di scatto gli occhi.

Il parco era vuoto.
Solo il vento, solo il cigolio delle catene.
E le altalene, che continuavano a oscillare lente, come se sapessero qualcosa che lui aveva dimenticato.

Capitolo 1 – Le catene

Il rumore delle catene era sempre lo stesso: un lamento metallico, sottile e continuo, che si perdeva nel vento come una canzone dimenticata. Federico lo conosceva da sempre. Non era un suono qualunque, ma un richiamo, come se il parco avesse deciso di custodire solo per lui quella musica arrugginita.

Si sedette, come faceva sempre, sull’altalena di sinistra. Era un gesto automatico, quasi un rito. Le catene fredde gli bruciarono i palmi, lasciando sulla pelle una sensazione pungente che gli ricordava l’infanzia: il gelo delle mattine d’inverno, quando arrivava qui con le mani nude e i polpastrelli arrossati dal freddo.

Sospirò. La punta della scarpa cominciò a tracciare piccoli solchi nella sabbia umida, linee disordinate che non volevano dire nulla. Un passatempo inconsapevole, come quando si attorciglia un filo senza pensarci. Sopra di lui il cielo era un mosaico sospeso: non più giorno, non ancora notte. Una sfumatura grigia, fragile, che sembrava trattenere il tempo in equilibrio.

Chiuse gli occhi per un istante. Non c’erano voci, non c’erano bambini. Nessun cane a rompere il silenzio, nessuna corsa improvvisa. Solo il vento e il cigolio delle altalene.
E poi, come sempre, arrivò.

Michele comparve senza far rumore. Non c’erano passi né annunci: semplicemente, a un certo punto, era lì. Con il suo vecchio giubbotto scuro, i capelli spettinati come se il vento li avesse scolpiti e quello sguardo che portava dietro intere stagioni. Federico non si voltò subito: riconosceva la sua presenza prima ancora di vederlo.

«Ti sei seduto prima di me, come al solito,» disse Michele, con quel mezzo sorriso che non sembrava mai cambiato.

Federico abbassò lo sguardo ai solchi che stava scavando nella sabbia. «Qualcuno deve pur tenere il posto.»

Michele rise appena, una risata breve, quasi strozzata, che lasciava intravedere qualcos’altro dietro: un ricordo, una ferita, un tempo che non passava mai davvero. Si sedette accanto a lui, sull’altalena di destra. Le catene tintinnarono, e per un istante sembrarono due vecchi amici che si salutavano con un abbraccio segreto.

Non ci fu alcun gesto. Niente strette di mano né pacche sulle spalle. In quel posto non servivano. Era come se il tempo, lì, si piegasse e diventasse di nuovo loro: due ragazzini con le ginocchia sbucciate, pronti a dondolarsi fino a sfiorare il cielo.

L’altalena di Michele oscillò piano, con un cigolio che si mescolò al respiro della sera.
«Sai che hai ancora quell’abitudine di fissare il terreno quando parli?» chiese Michele, guardandolo di lato.

Federico accennò un sorriso. «E tu hai ancora quella di ricordarmelo ogni volta.»

Un’altra risata breve. E con essa, come un’ondata improvvisa, Federico si ritrovò catapultato nel passato: nei pomeriggi infiniti in cui correvano dietro a un pallone, nei segreti sussurrati tra i rami del vecchio olmo, nelle estati che sembravano non finire mai. Bastava poco — il suono di una voce, il cigolio di un’altalena — e le porte della memoria si spalancavano da sole.

Un refolo di vento sollevò la sabbia e portò con sé l’odore di ruggine e foglie bagnate. Federico passò una mano sulla catena, lasciando che il metallo gelido gli scorresse tra le dita. Poi, quasi senza guardare Michele, disse piano:
«Sai cosa mi manca?»

Michele non rispose subito. Spinse appena i piedi in avanti, lasciando che l’altalena lo cullasse. «Cosa?»

«Quel senso di invincibilità che avevamo. Quando ci sembrava che niente potesse dividerci. Nemmeno il mondo.»

Lo sguardo di Michele si perse nell’ombra degli alberi. Restò in silenzio a lungo, come se cercasse una risposta che non voleva dare. Poi mormorò:
«Forse il mondo non ci ha divisi. Forse ci ha solo… messi in pausa.»

Federico non replicò. Rimase fermo a fissare il profilo dell’amico, con il cuore stretto tra nostalgia e malinconia. Le catene gemevano piano, riempiendo il vuoto con il loro lamento metallico.

E fu allora che le parole gli scivolarono via dalle labbra, quasi senza rendersene conto:
«Ti dico che va tutto bene.»

Michele sorrise, lo stesso sorriso di sempre. «Non ti credo. Ma va bene lo stesso.»

Il vento si fece più forte, piegando le fronde degli alberi e facendo oscillare entrambe le altalene. Federico chiuse gli occhi e si lasciò andare, avanti e indietro, come un bambino che non ha più bisogno di crescere.
Per un istante ebbe la sensazione che il tempo, davvero, non fosse mai andato avanti.

Capitolo 2 – Il pallone rosso

Era l’estate del 2004.
Il sole cadeva sull’asfalto come una mano pesante, lenta, che schiacciava ogni cosa. Le cicale cantavano senza tregua, ma persino il loro coro sembrava stanco, come se fosse vittima dello stesso caldo che piegava i rami degli alberi. Il cortile della scuola, abbandonato dopo l’ultima campanella di giugno, era diventato un deserto grigio: muri scrostati, finestre chiuse, l’odore di polvere e di vacanze appena cominciate.

Michele fissava il cancello arrugginito del magazzino dietro la palestra con uno sguardo che Federico conosceva troppo bene. Era lo stesso sguardo che precedeva ogni follia, ogni sfida, ogni guaio in cui finivano. Un lampo negli occhi che diceva: adesso succede qualcosa.

«Andiamo a prenderlo,» disse, con un sorriso che non lasciava spazio a repliche.

Federico si irrigidì, stringendo lo zaino al petto come se potesse servire da scudo. Il sudore gli colava dalla fronte, gli appiccicava la maglietta alla schiena. «Se ci beccano, siamo morti.»

Michele rise. Non una risata lunga, ma abbastanza forte da fargli vibrare le spalle magre. «Se ci beccano, corriamo. Dai, Fede. È solo un pallone.»

Solo un pallone.
Federico sapeva che non era vero. Non era solo un pallone. Era il pallone. Quel Mikasa rosso scolorito che avevano spiato per mesi attraverso la finestra impolverata della palestra. Nessuno lo usava più, nessuno lo ricordava nemmeno. Nessuno tranne loro. E proprio per questo, era diventato una specie di trofeo, un simbolo di libertà che brillava dietro le sbarre di quel cancello.

Il metallo cedette con un cigolio lento, quasi rassegnato, come se aspettasse da tempo che qualcuno lo aprisse. Michele lo spinse con sicurezza, e l’odore del magazzino li investì: muffa, gomma vecchia, un vago sentore di ruggine. La luce filtrava da una fessura nel tetto, tagliando il buio con un raggio obliquo. E lì, al centro, come illuminato apposta, c’era il pallone.

Michele lo afferrò senza esitazione, sollevandolo sopra la testa come fosse la coppa del mondo. «Visto? È nostro.»

Federico trattenne il fiato. Per un istante ebbe la sensazione che il cuore gli uscisse dal petto. Poi scoppiò a ridere, una risata breve, liberatoria. Era fatta.

E allora cominciarono a giocare.
Nel cortile vuoto, sotto il sole implacabile, il pallone rimbalzava contro i muri e restituiva echi secchi, rumorosi, che sembravano più forti di qualsiasi regola. Correvano scalciando, inciampando, urlando, le mani arrossate, le ginocchia già graffiate dalla prima caduta. Il sudore aveva un sapore salato che si mescolava alla polvere, e ogni respiro sembrava bruciare. Ma niente li fermava. Non in quel momento.

Il mondo era diventato minuscolo: solo loro due, il pallone rubato e l’illusione di essere invincibili.

Poi una voce squarciò l’incantesimo.
«Ehi! Che state facendo là dentro?!»

Il bidello.

Michele non perse un secondo. Gli occhi gli brillarono di un fuoco che Federico non aveva mai visto spento. «Corri!»

E corsero.
Corsero come se il fiato non potesse finire, come se il cortile fosse un’arena e il bidello un mostro da seminare. Federico stringeva il pallone al petto, più forte di qualsiasi trofeo. Sentiva il cuore battergli nelle orecchie, il sangue ronzare nelle tempie. Il mondo diventò un’unica linea di fuga.

Si nascosero dietro le altalene del vecchio parco giochi, ansimando come due animali braccati. Le catene cigolarono, complici del loro segreto. Michele si piegò in due, ridendo con il fiato corto.
«Te l’avevo detto, Fede. Finché ci siamo noi due, non ci prende nessuno.»

E Federico, con il pallone stretto ancora tra le braccia, in quel momento gli credette davvero.


Il ricordo svanì come sabbia tra le dita. Federico era di nuovo lì, seduto sull’altalena di sinistra, con il vento che faceva gemere le catene e il presente che gli cadeva addosso come un vestito troppo largo. Accanto a lui, Michele lo guardava con un sorriso appena accennato, lo stesso di allora, come se quell’estate del 2004 non fosse mai finita.

«Ti ricordi?» chiese Michele.

Federico annuì, con un filo di voce. «Ogni dettaglio.»

Una foglia secca, trascinata dal vento, cadde proprio ai suoi piedi. Federico si chinò per raccoglierla e, quando rialzò lo sguardo, l’altalena accanto a lui era vuota.
Solo un battito di ciglia.
Poi Michele era di nuovo lì, identico, con quel sorriso che sembrava sfidare il tempo.

«Te l’ho detto. Finché ci siamo noi due, non ci prende nessuno.»

Federico lo fissò a lungo. Eppure il cuore, questa volta, gli batteva un po’ più forte.

Capitolo 3 – Una volta al mese

Federico non ricordava più con precisione quando fosse cominciata. Forse un inverno di tanti anni fa, forse in un momento in cui non riusciva a parlare con nessun altro. Sta di fatto che, da allora, aveva preso l’abitudine di tornare al vecchio parco giochi una volta al mese, sempre lo stesso giorno, alla stessa ora.

Era diventato un rito segreto. Nessuno lo sapeva. Nessuno avrebbe potuto capirlo. Forse neanche lui.

Quella sera, il vento correva tra i rami con un suono che pareva un respiro affaticato. I lampioni, con le loro luci giallastre e tremolanti, allungavano ombre deformi sull’asfalto screpolato. Ogni volta che varcava quel cancello arrugginito, Federico aveva la sensazione di oltrepassare una soglia invisibile: fuori restava il mondo dei numeri, delle riunioni, delle parole gonfie di niente; dentro, invece, c’era un tempo diverso, sospeso, fatto di silenzi e di ricordi che tornavano a galla senza chiedere permesso.

Camminava a passo lento, le mani sprofondate nelle tasche, ascoltando il rumore dei propri passi sulla ghiaia. Non serviva cercare Michele. Sapeva già che lo avrebbe trovato.

E infatti era lì, come sempre. Seduto sull’altalena di destra, che dondolava piano, appena. Il suo viso era illuminato a tratti dalla luce incerta di un lampione che sembrava avere il fiato corto. Sembrava immobile, eppure vivo, come se fosse parte integrante del parco.

«Sei in ritardo,» disse Michele, senza smettere di muoversi.

Federico sorrise, scrollando le spalle. «Dieci minuti. Colpa di una riunione infinita. Giuro, se sento ancora una volta la parola budget, mi licenzio e vado a fare il giardiniere.»

Michele rise piano, una risata calda, familiare, che non aveva bisogno di spiegazioni. «Lo dicevi anche ai tempi dei compiti di matematica. Alla fine sei rimasto lo stesso.»

Federico si lasciò cadere sull’altalena accanto a lui. Le catene tintinnarono come vecchi amici che si salutano. «Almeno allora potevo copiare da te.»

Per qualche istante nessuno parlò. Ma non era un silenzio pesante: era un silenzio denso, pieno di complicità. Federico lasciò che il vento gli passasse tra i capelli, fissò il cielo ingombro di nuvole e poi, quasi senza accorgersene, cominciò a parlare.

«Sai… non è solo la riunione di oggi. È che passo le giornate davanti a schermi pieni di numeri, grafici, mail senza senso… e alla fine mi chiedo se serve a qualcosa. Poi arrivo qui, e mi sembra di respirare di nuovo. Come se bastasse un pomeriggio di quelli di una volta per sentirmi vivo.»

Michele si dondolò un po’ di più, fissando un punto indefinito davanti a sé. «Forse non è il lavoro. Forse siamo noi che ci dimentichiamo come si gioca.»

Federico lo guardò di lato, con un mezzo sorriso amaro. «E tu che ne sai? Tu sei sempre uguale. Sempre qui. Come se il tempo non ti avesse mai toccato.»

Michele alzò gli occhi al cielo, le catene che cigolarono come a sottolineare le sue parole. «Magari è il parco che mi tiene così.»

Federico rise, ma il suono morì presto sulle labbra. Si rese conto che il parco era silenzioso. Troppo silenzioso. Non c’erano bambini, né il rumore di un televisore acceso dalle case vicine, neppure un cane che abbaia in lontananza. Solo loro. Solo il vento.

Poi la sentì.
Una melodia debole, quasi irreale, come se provenisse da una finestra socchiusa che non riusciva a individuare.

“Ti dico che va tutto bene, anche se cado a pezzi…”

Federico si voltò di scatto, scrutando le case che circondavano il parco. Erano tutte spente, immobili, come quinte di un teatro dimenticato. Tornò a guardare Michele.

«La senti anche tu?» chiese, con un filo di voce.

Michele sorrise, e per un attimo i suoi occhi brillarono di una luce antica. «La sento sempre. Ma tu… tu solo adesso hai iniziato ad ascoltarla.»

Federico avrebbe voluto ridere, scrollare le spalle, liquidarlo come faceva sempre. Ma quella volta restò in silenzio. Guardava Michele e gli sembrava di vederlo per la prima volta: identico a com’era stato anni prima, eppure distante, come un’immagine stampata su una vecchia fotografia.

«Non ti preoccupare, Fede,» disse Michele, dandosi una spinta più decisa. «Anche se cadi a pezzi, io sarò sempre qui. Come queste altalene.»

Federico lo fissò, senza trovare parole. Poi abbassò lo sguardo e lasciò che l’altalena lo portasse avanti e indietro, avanti e indietro. Il vento faceva cantare le catene, e in quel suono metallico sembrava esserci più verità che in qualsiasi discorso.

Quando, poco dopo, alzò di nuovo gli occhi, per un solo istante ebbe l’impressione che l’altalena accanto fosse vuota.

Solo un istante.
Poi Michele era di nuovo lì, con quel sorriso che non cambiava mai.

Federico decise di non pensarci.
Non quella sera.

Capitolo 4 – Promesse

Il vento del parco aveva un odore che Federico non trovava in nessun altro posto. Un miscuglio di erba tagliata male, ferro arrugginito e un vago sentore di pioggia lontana. Ogni volta che tornava lì, quell’odore lo accoglieva come un vecchio amico: pungente, familiare, immutabile.

Seduto sull’altalena, lasciava che le catene fredde gli scorressero tra le dita. Michele era accanto a lui, dondolava piano, senza fretta. Sembrava sempre aspettare che il mondo decidesse di fermarsi per ascoltarlo.

«Ti ricordi l’estate del 2009?» chiese Michele, all’improvviso, come se avesse aperto un cassetto chiuso da anni.

Federico sorrise. «Come potrei dimenticarla?»

E come accadeva sempre quando Michele evocava un ricordo, il parco si dissolse intorno a lui. Il cigolio delle catene sfumò nel rumore delle cicale, e l’aria umida della sera lasciò il posto al calore bruciante di un agosto lontano.


Era un’estate appiccicosa, fatta di pomeriggi infiniti e serate che sembravano non voler finire. L’asfalto tremolava sotto il sole, i lampioni sfarfallavano la sera come se anche la luce fosse stanca, e il campo dietro al parco era il loro regno.

«Oh, Fede, passami il pallone!» gridava Michele, correndo a perdifiato.

Federico lo lanciò con troppa forza. Il pallone rimbalzò male, finendo contro l’altalena arrugginita. Le catene si agitarono, scricchiolando come un vecchio che protesta contro gli scherzi dei bambini.

Michele scoppiò a ridere. «Un giorno cadrà, te lo dico io.»

«E noi saremo troppo vecchi per giocarci,» ribatté Federico, ansimando.

«Mai troppo vecchi per le altalene.»

Si guardarono un istante, e la risata che li prese subito dopo era così piena da sembrare eterna.

Le serate di quell’estate avevano il sapore di granite alla menta e chiacchiere infinite sotto il cielo che si accendeva di stelle. Restavano lì, seduti sulle panchine sgangherate, con le ginocchia graffiate e la pelle che odorava di sole. Ogni tanto portavano con sé una radio gracchiante, che diffondeva canzoni estive troppo allegre per essere dimenticate.

Quella fu l’estate delle promesse.
Ne fecero tante, più grandi di loro. Si giurarono che non si sarebbero mai persi, che nessuna distanza li avrebbe separati, che il futuro li avrebbe trovati sempre uno accanto all’altro. Promesse dette ridendo, con la leggerezza dei quindici anni, eppure, a quell’età, sembravano leggi incise nel cielo.


Il parco lo riportò lentamente al presente.

Federico chiuse gli occhi. «Se li stringo abbastanza forte, posso ancora sentire il sapore di quelle granite e l’odore della polvere sul campo.»

«E il rumore dei lampioni che tremavano quando restavamo qui fino a tardi,» aggiunse Michele, dondolandosi appena.

Federico sorrise. «E di quando abbiamo promesso che non ci saremmo mai persi.»

Il vento si fermò un istante, come se stesse ascoltando. Michele non rispose subito. Si limitò a fissare le catene, lo sguardo perso. Poi, con voce quieta, quasi un soffio, disse:
«Non sempre le promesse si possono mantenere.»

Federico lo guardò, sorpreso. «Che vuoi dire?»

Michele inclinò appena la testa, ma invece di rispondere cambiò discorso. «Ti ricordi quella sera che ci siamo arrampicati sul tetto della scuola?»

Federico rise, quasi sollevato. «Come scordarlo? Ci avevano quasi beccati.»

«E tu tremavi come una foglia.»

«E tu dicesti che, se fossi caduto, saresti saltato giù con me. Non so se fosse coraggio o pura stupidità.»

Michele sorrise appena. «Forse tutte e due.»

Ma dietro quella risata, Federico avvertì un’ombra. Non tutte le immagini di quell’estate erano luminose. C’era una sera senza luna che cercava di riaffiorare, una chiamata persa, il suono di sirene in lontananza.

Strinse più forte le catene dell’altalena, scacciando il ricordo prima che prendesse forma. Non era pronto. Non ancora.

«Ehi, Fede,» disse Michele, riportandolo al presente, «non ti fissare troppo sul lavoro. O su cose che non contano davvero.»

Federico sospirò. «E tu che ne sai di quello che conta?»

Michele lo guardò a lungo. Nei suoi occhi c’era una calma inquietante. «So che certe cose si rompono senza fare rumore. E quando te ne accorgi… è già troppo tardi.»

Federico stava per replicare, ma prima che potesse dire qualcosa, il vento portò con sé un frammento di melodia.

“Ti dico che va tutto bene, anche se cado a pezzi…”

Federico si voltò di scatto. Il parco era vuoto. Solo lampioni tremolanti, alberi fermi, altalene immobili. Tranne la loro.

Tornò a guardare Michele, che lo fissava con un sorriso dolce ma stranamente inquieto.
«Non preoccuparti, Fede. Ci sono io. Sempre.»

Federico abbassò lo sguardo. Ma quella parola – sempre – gli rimase in gola come una lama sottile.

Capitolo 5 – In pista

Il vento del parco quella sera aveva un suono diverso. Non era solo un rumore tra gli alberi: sembrava quasi un vecchio vinile che girava piano, portando con sé una melodia lontana. Federico fissava Michele, seduto sull’altalena accanto, che si spingeva appena, lo sguardo rivolto verso il cielo.

«Sei silenzioso stasera,» disse Federico, rompendo il fruscio delle catene.
Michele sorrise di lato, quel sorriso che era metà ironia e metà nostalgia. «Sto pensando a una notte.»
Federico inclinò la testa. «Quale?»
«Quella volta che abbiamo ballato fino a farci venire i crampi. Ti ricordi? Le due ragazze… la pista…»

Federico rise piano. «Come potrei dimenticarlo?»

E il parco cominciò a dissolversi. Le altalene, il vento, persino il rumore lontano del traffico sparirono, lasciando posto al battito secco della musica di quella notte.


Era il 2010. Il locale si chiamava BlueMoon, ma di luna non c’era traccia: solo luci al neon che si riflettevano sulle pareti e bassi che facevano vibrare le ossa. Michele era già lì, giubbotto consumato e quell’aria da guaio annunciato.

«Sicuro che ci fanno entrare?» sussurrò Federico, controllandosi la camicia per la decima volta.

Michele gli passò un braccio sulle spalle, trascinandolo verso l’ingresso. «Con me puoi stare tranquillo. Fidati.»

La fila scorreva lenta, fatta di ragazzi troppo grandi per essere adolescenti e troppo piccoli per sembrare adulti. Ragazze con vestiti scintillanti, risate acute che si mescolavano al fumo delle sigarette. Federico si sentiva fuori posto, spaesato. Michele no. Lui sembrava perfettamente a suo agio, come se fosse nato per quella confusione.

Quando arrivò il loro turno, il buttafuori li squadrò. «Documenti.»
Federico trattenne il respiro. Michele, con nonchalance, tirò fuori la carta d’identità e la porse come se fosse la cosa più naturale del mondo. Un attimo di esitazione, poi il gigante annuì e li fece passare.

Dentro, la musica li investì come un’onda. Luci stroboscopiche tagliavano il fumo, il pavimento vibrava sotto i loro piedi. Era un caos perfetto, e Michele sembrava già parte di quel caos. Federico, invece, restò fermo per qualche secondo, incapace di muoversi.

«Muoviti!» gridò Michele, sovrastando la musica. Lo prese per il braccio e lo trascinò nella pista.

All’inizio Federico si sentì goffo, fuori ritmo, ma poi… poi lasciò che la musica facesse il resto. Le risate di Michele, il calore dei corpi intorno, l’odore di sudore e profumo dolciastro: tutto lo avvolgeva. Per la prima volta sentì il cuore leggero, come se potesse davvero perdersi lì dentro senza paura.

«Fede,» gridò sopra il frastuono, «guarda quelle due.»
Federico seguì il suo sguardo: al centro della pista, due ragazze ballavano come se il mondo intero fosse solo quel momento.
«Sono fuori dalla nostra portata,» disse Federico, già pronto a rinunciare.
Michele rise. «Perfetto. Allora è il momento giusto per provarci.»

Non sapeva mai come facesse, ma un’ora dopo ridevano tutti e quattro come vecchi amici. Le ragazze si chiamavano Sara e Chiara, e avevano quell’energia che rendeva impossibile non seguirle. Michele, con il suo modo spavaldo e naturale, era già al centro della pista. Federico invece rideva troppo per preoccuparsi di ballare bene.

«Sei un disastro,» urlò Michele, piegandosi in due dal ridere.
«E tu sembri convinto di saper ballare!» ribatté Federico, cercando di spingerlo via a forza di spalle.

Poi partì un lento. Le ragazze li guardarono con un sorriso complice, e prima che Federico potesse inventarsi una scusa, Sara gli prese la mano. Le luci giravano lente sopra di loro, Michele ballava con Chiara, e per un momento sembrò che niente potesse esistere al di fuori di quella pista.

Quando il locale chiuse, non avevano nessuna voglia di tornare a casa. Fu Michele a proporlo:
«Andiamo al mare. Tutti e quattro.»
«A quest’ora?» chiese Federico, ma in fondo sapeva già che avrebbe accettato.

La spiaggia li accolse con il suono delle onde e il profumo di salsedine. Michele si tolse le scarpe e le lanciò sulla sabbia. «Regola numero uno: niente scarpe dopo mezzanotte.»
«E regola numero due?» chiese Chiara, ridendo.
«Bomboloni all’alba,» rispose Michele, come se fosse una legge sacra.

Parlarono per ore, sdraiati sulla sabbia fredda. Sara raccontava dei suoi sogni, Chiara rideva di qualsiasi cosa dicesse Michele, e Federico si scoprì a guardare il cielo chiedendosi come facesse tutto a sembrare così semplice.

All’alba, con le prime strisce rosa che tagliavano il mare, andarono al chiosco sulla strada e comprarono bomboloni caldi. Michele, con lo zucchero a velo sparso sulla giacca, alzò il dolce come se fosse un brindisi.
«Alle notti che non finiscono mai,» disse.
«E alle mattine che non fanno paura,» aggiunse Federico.

Si guardarono, e in quell’istante Federico pensò che non ci sarebbe stato niente di più perfetto.

Rimasero in silenzio a lungo. Solo il rumore delle onde, il fruscio del vento. Poi Michele lo guardò e disse: «Ti immagini quando avremo vent’anni? Saremo sempre così. Io e te. In pista a ballare, e poi qui, a guardare il mare.»

Federico sorrise. «Promesso?»

«Promesso.»

Federico scoppiò a ridere. In quell’istante gli sembrò che nulla potesse cambiare, che davvero sarebbero rimasti sempre così: due ragazzi invincibili, amici per sempre, custodi di notti che il tempo non avrebbe potuto toccare.


Un colpo di vento riportò Federico al parco. Michele era ancora lì, sull’altalena, con quel mezzo sorriso di chi sa qualcosa che tu hai dimenticato.
«Non mi ero mai ricordato tutti quei dettagli,» mormorò Federico.
«Non li hai mai dimenticati,» lo corresse Michele. «A volte basta solo tornare qui.»

Federico lo guardò, sentendo un nodo alla gola. «E se un giorno smettessi di tornare?»
Michele si dondolò appena, le catene che gemevano piano. «Non succederà, Fede. Non finché io sarò qui.»

E per un momento, sotto le luci tremolanti del parco, Federico ebbe l’impressione che il tempo fosse davvero fermo.

Capitolo 6 – La camera oscura

Il parco era silenzioso, come se trattenesse il respiro. Federico si dondolava piano, le mani strette alle catene fredde. L’odore di ferro e foglie umide era lo stesso di sempre. Accanto a lui, Michele fissava un punto lontano, con quello sguardo che non apparteneva mai del tutto al presente.

«Te la ricordi la camera oscura?» chiese Michele, senza voltarsi.
Federico sollevò appena un sopracciglio. «Per forza! Sembrava la tana di un contrabbandiere.»
Michele rise piano. «Era solo il seminterrato di casa mia.»
«Già… ma per noi era un altro mondo.»

E il parco, con i lampioni tremolanti e le altalene arrugginite, si dissolse ancora una volta.


La camera oscura era un rifugio segreto. Una porta cigolante, una scala stretta, e poi quel piccolo regno di ombre e luci rosse, impregnato di odore di chimici e di carta fotografica. Michele aveva recuperato tutto da suo zio: ingranditore, bacinelle, persino una vecchia radio che gracchiava solo stazioni lontane.

«Metti giù quella tazza!» aveva protestato Michele una volta, vedendo Federico appoggiare un bicchiere di Coca-Cola accanto alle soluzioni per lo sviluppo.
«E dove dovrei metterla?»
«Fuori. Qui dentro si lavora come in un laboratorio segreto.»
Federico aveva riso. «Ah, giusto. Siamo due scienziati pazzi con la passione per le foto di gruppo.»

Quella sera svilupparono il rullino della festa di fine estate. C’erano loro due, Sara, Chiara e altri amici, tutti immortalati in smorfie e risate congelate. Mentre le immagini prendevano forma sotto il liquido, Federico aveva avuto una sensazione strana: come se quei momenti, imprigionati sulla carta, potessero sopravvivere al tempo.

«È magia,» mormorò Federico, osservando una fotografia che stava prendendo forma davanti ai suoi occhi. Prima un’ombra, poi un contorno, poi un volto.

Michele rise piano. «Non è magia, è chimica. Ma se vuoi, puoi chiamarla come ti pare.»

«Guarda questa,» disse Michele, tirando su una foto con le pinze. Era loro due, spalla contro spalla, sporchi di sabbia e zucchero a velo dopo una notte di mare e bomboloni.
«Oddio, sembriamo due reduci,» rise Federico.
«I reduci delle notti migliori,» rispose Michele, con quel tono serio che usava solo quando diceva la verità.

Federico si chinò su una delle stampe. Era una foto del campetto, con loro due che ridevano mentre uno teneva l’altro per il collo, come dopo una partita vinta. «Perché le stampi ancora? Basta avere il file sul computer.»

Michele scosse la testa. «Il file può sparire. Un clic, un guasto, e non c’è più. La carta no. La carta resta. E ogni volta che la guardi, è come se quel momento tornasse a vivere.»

Federico rimase in silenzio. Non aveva mai pensato ai ricordi in quel modo. Per lui erano cose che si tenevano in testa, e basta. Ma Michele… Michele li fissava, li rendeva eterni.

«Non vuoi che spariscano?» chiese Federico, incuriosito.

Michele abbassò lo sguardo, passando un dito su una foto ancora bagnata. «Alcune cose… hanno bisogno di restare. Perché il tempo, da solo, non è affidabile.»

Federico non sapeva cosa rispondere. Lo guardava muoversi in quella penombra rossa, con gesti precisi e appassionati, e aveva la sensazione che Michele vivesse in un mondo diverso, un mondo dove nulla andava davvero perduto.

Quando uscirono dalla camera oscura, portandosi dietro l’odore pungente dei prodotti chimici, il sole stava calando. Federico si sentiva come se avesse appena visto un pezzo nascosto della vita del suo amico. Un pezzo che lo rendeva misterioso, più profondo.


Il parco riapparve, restituendogli la sabbia umida sotto le scarpe e il cigolio delle altalene. Michele si dondolava piano, lo sguardo rivolto al cielo.

«Lo sai che ho ancora quella foto?» disse Federico, senza sapere bene perché lo stava confessando. «Quella con la sabbia e i bomboloni.»
Michele sorrise appena. «Lo so.»
Federico si voltò verso di lui. «Come fai a saperlo?»
Michele non rispose subito. Si dondolò appena, le catene che gemevano piano. «Perché certe cose… non le perdi davvero.»

«Sai cosa ho capito, Fede?» continuò, senza guardarlo. «Che i ricordi non hanno paura di morire. Hanno paura di essere dimenticati.»

Federico lo osservò in silenzio. Aveva la sensazione che quella frase fosse più un avvertimento che una riflessione.
Si strinse nelle spalle, come per scacciare un brivido. «E tu pensi di salvarli tutti, con le tue fotografie?»

Michele sorrise. «Forse non tutti. Ma quelli che contano, sì.»

Federico strinse le mani alle catene. Avrebbe voluto chiedergli se parlava delle foto o di loro due. Ma poi, da qualche parte, tornò quella melodia.

Un frammento, lo stesso di sempre:
“Ti dico che va tutto bene, anche se cado a pezzi…”

Federico si voltò, ma non c’era nessuno. Solo il vento e Michele che lo guardava come se sapesse ogni sua domanda.

«Andiamo avanti, Fede,» disse lui. «Abbiamo ancora una notte.»

E Federico, senza capire fino in fondo cosa intendesse, si limitò ad annuire.

Capitolo 7 – La notte delle sirene

Il parco era immerso in un silenzio insolito. Non quello quieto e familiare che spesso aveva accolto Federico e Michele, ma un silenzio diverso: teso, tagliente, come se gli alberi avessero smesso di respirare e le catene arrugginite delle altalene si fossero stancate di cigolare. Persino l’aria sembrava trattenere qualcosa, un segreto mai confessato.

Federico si lasciava cullare piano, avanti e indietro, il corpo pesante e lo sguardo perso nel vuoto. Le mani, strette sulle catene fredde, gli facevano male, ma non allentava la presa. Accanto a lui, Michele oscillava appena, quasi immobile, lo sguardo rivolto verso l’oscurità, come se ascoltasse una musica che nessun altro poteva sentire.

«Hai mai pensato,» disse Michele all’improvviso, la voce bassa ma limpida, «a quella notte? Quella che non abbiamo mai finito di raccontarci?»

Un brivido percorse la schiena di Federico. Restò in silenzio qualche secondo, cercando parole che non arrivavano.
«Perché tiri fuori quella storia adesso?»

Michele non lo guardò. Continuò a dondolare appena, con un movimento quasi impercettibile. «Perché è sempre stata qui,» rispose. «Anche quando fai finta di dimenticarla.»

Federico abbassò lo sguardo. La punta della scarpa scavava solchi nella sabbia umida sotto di lui. E, per un attimo, il presente si incrinò. Non era più un uomo adulto seduto su un’altalena arrugginita: era di nuovo un ragazzo di diciassette anni, con il cuore che batteva forte, il respiro corto, e quella sensazione indefinibile di essere sul punto di perdere qualcosa senza sapere ancora cosa.


Era agosto.
Il caldo del giorno si era incollato all’asfalto, ma di notte il cielo si apriva come un sipario scuro. Il parco diventava il loro rifugio: due ragazzi, le altalene che gemevano piano e il vento che portava con sé l’odore dell’erba bagnata.

Quella sera, però, Michele era diverso. Camminava nervoso avanti e indietro vicino alle panchine sgangherate, lanciando sassolini contro lo schienale di legno, uno dopo l’altro, con la precisione ossessiva di chi cerca di scacciare un pensiero che non vuole dire.

Federico lo osservava da lontano, dondolandosi piano. «Che hai?» chiese infine, rompendo quel silenzio che stava diventando insopportabile.

«Niente.»

«Non dirmi niente, Mich. Ti conosco.»

Michele si fermò. Per un istante rimase immobile, le mani affondate nelle tasche dei jeans, il volto a metà nell’ombra di un lampione tremolante. Esitò, come se le parole gli pesassero più delle pietre. Poi si sedette accanto a lui, lasciando che il cigolio delle catene coprisse il vuoto per qualche secondo.

«Sai che a volte ho la sensazione che potrei… sparire,» disse piano. «Così. All’improvviso. Senza che nessuno se ne accorga.»

Federico lo fissò incredulo, come se stesse ascoltando una follia.
«Che diavolo dici? Non dire stupidaggini.»

Michele sorrise, ma non era il suo sorriso. Non quello storto, allegro, che lo aveva sempre accompagnato. Era un sorriso fragile, appena accennato, simile a una crepa su un vetro che minaccia di frantumarsi. «Lascia perdere, Fede. Non è niente.»


Il presente tornò a colpirlo come una raffica improvvisa. Federico strinse le catene dell’altalena fino a farsi male ai palmi, cercando di scacciare quel ricordo. «Non è il momento di parlare di questo,» sussurrò, più a sé stesso che a Michele.

Ma Michele lo fissava. I suoi occhi erano calmi, troppo calmi, e in quell’immobilità c’era qualcosa di inquietante. «Lo è sempre stato, invece.»

Federico chiuse gli occhi. Ed ecco che il ricordo si spalancò ancora una volta: la corsa sotto i lampioni gialli, i respiri spezzati, il battito frenetico del cuore. Poi quel suono: sirene, vicine, laceranti, che squarciavano la notte come coltelli.

E Michele che si voltava un attimo verso di lui, il volto sospeso tra luce e buio, come un fotogramma consunto di una pellicola che sta per bruciarsi.

«Non avresti dovuto andare via quella sera…» mormorò Federico, senza accorgersi di averlo detto ad alta voce.

Michele rimase immobile. Lo guardava soltanto, e nel suo sguardo c’era dolcezza e dolore mescolati, come se custodisse una verità che Federico non avrebbe mai avuto la forza di ascoltare.

E poi, da qualche parte, il vento portò un frammento di melodia. Una voce lontana, sospesa tra le fronde degli alberi:

“Ti dico che va tutto bene… anche se cado a pezzi…”

Federico si voltò di scatto. Nessuno. Solo i lampioni tremolanti, le altalene vuote, la notte che tratteneva il fiato.

Quando tornò a guardare Michele, lui stava sorridendo. Il solito sorriso, quello che non cambiava mai.

«Andiamo avanti, Fede,» disse piano. «Abbiamo ancora tempo.»

Federico annuì, ma un nodo duro gli serrava la gola. Perché quella parola – tempo – gli suonava come una promessa fragile, e temeva che scoprire se fosse vera o no potesse distruggerlo più di ogni ricordo.

Capitolo 8 – Una giornata per non pensare

Il vento nel parco aveva quell’odore metallico, un misto di ferro arrugginito e memoria. Federico si lasciava cullare dall’altalena, lo sguardo perso nel buio che si stendeva oltre le sagome degli alberi. Non cercava risposte, solo silenzio. Poi, come accadeva spesso, Michele parlò senza preavviso, con la sua voce che rompeva l’aria come un sasso gettato in uno stagno:

«Te la ricordi, Fede? La notte della nebbia al mare.»

Federico chiuse gli occhi. Un sorriso amaro gli increspò appena le labbra. «Come potrei dimenticarla…»


Era cominciato tutto con una porta che si chiudeva.
Lei non aveva pianto. Nessuna scena, nessun addio drammatico. Solo una frase breve, tagliente: “Non funziona più.”
E in quel momento, Federico aveva sentito il mondo crollargli dentro. Non un crollo fragoroso, ma un silenzio che si spalanca all’improvviso, come il vuoto di una stanza svuotata.

Quando Michele si era presentato a casa sua, non aveva chiesto spiegazioni, non gli aveva imposto discorsi. Si era limitato a dire, con la semplicità che lo rendeva diverso da tutti gli altri: «Prendi la bici. Fidati di me.»

E così erano partiti.

Pedalarono per chilometri, lasciandosi alle spalle la città addormentata. I lampioni diventavano sempre più radi, le case si assottigliavano fino a sparire. Davanti a loro c’era solo una strada che finiva dentro un muro di nebbia. Una nebbia che divorava i suoni, inghiottiva gli alberi, cancellava ogni cosa tranne il rumore regolare dei pedali.

Arrivarono al mare che ancora non era giorno.

Il chiosco sulla spiaggia aveva le serrande quasi abbassate, ma il barista li squadrò appena, prima di passare due bottiglie di birra sul bancone con un gesto lento, indifferente.
La prima bottiglia fu silenzio.
La seconda, una risata forzata.
Alla terza, Federico parlò: «Non mi ha nemmeno odiato, capisci? È solo… finita. E non so come si sopravvive a una cosa così.»
Michele non disse nulla. Gli porse un’altra birra e una macchina fotografica che aveva tirato fuori dal suo zaino.
«Allora scatta. Se il mondo fa schifo, almeno rubiamogli un paio di immagini decenti.»

Camminarono sulla battigia, il mare nascosto da quella coltre lattiginosa. Ogni passo era un’ombra che si allungava e spariva. Federico premette l’otturatore quasi senza pensarci: Michele che rideva stringendo la bottiglia, il loro riflesso distorto sulla sabbia bagnata, il profilo sbiadito delle onde che si perdevano nel bianco.

Bevvero ancora, fino a ridere davvero, con quella leggerezza che non si può fingere. Poi, senza nemmeno dirselo, corsero in acqua vestiti, urlando canzoni stonate che la nebbia inghiottiva come un segreto. L’acqua era gelida, le scarpe si riempivano di sabbia, ma in quell’istante non c’era dolore né vuoto: solo la certezza di essere vivi.

Tornarono a riva fradici, tremanti, i vestiti che gocciolavano e le mani intorpidite. Eppure, nei loro occhi ardeva una scintilla che nessuna nebbia poteva soffocare.

All’alba, risalirono in sella alle biciclette.
Davanti a una pasticceria ancora chiusa, il profumo dei bomboloni caldi li accolse come una promessa. Dal retro arrivavano i vassoi appena sfornati: zucchero che volava nell’aria, un tepore che contrastava con il freddo umido del mattino. Mangiarono seduti sul muretto, con le dita appiccicose e gli occhi rossi dal sonno.

«Grazie,» disse Federico, fissando l’orizzonte che la nebbia aveva inghiottito.

Michele sorrise appena, mordendo il suo bombolone. «Non ringraziarmi. Non ti lascio affogare da solo.»

Federico rise piano. «E se affogo davvero?»

Michele lo guardò negli occhi. «Allora affoghiamo insieme. Ma prima ci finiamo i bomboloni.»


Federico tornò al presente, al parco, alle altalene che gemevano piano nel vento. Michele era lì accanto a lui, come sempre.
«Sai,» disse Federico, «se non ci fossi stato tu quella notte… non lo so.»
Michele inclinò appena la testa, il sorriso appena accennato. «E invece c’ero.»

E quando Federico si voltò di nuovo verso di lui, per un istante brevissimo, ebbe la sensazione che Michele fosse sfumato come la nebbia di quella notte. Ma poi tornò nitido, dondolandosi piano, come se non si fosse mai mosso.

Capitolo 9 – Ombre di giorno

Il parco di giorno non era lo stesso.
Federico lo capì subito, appena oltrepassò il cancello arrugginito che cigolò come un vecchio animale ferito. La luce del sole non aveva il potere di dissolvere le ombre, ma al contrario sembrava fissarle, inchiodarle in un silenzio innaturale. Ogni ramo, ogni macchia di ruggine, ogni granello di polvere era lì, esposto, immobile. Le altalene, ferme sotto il vento, oscillavano appena, come se un bambino invisibile le avesse spinte un attimo prima per poi sparire.

Si fermò sotto il vecchio olmo. La panchina lo aspettava, sbiadita e scheggiata, con le venature del legno che il tempo aveva inciso come rughe. Bastava sedersi per sentire tutto il peso delle ore passate lì, a ridere con Michele, a parlare di nulla come se fosse l’unica cosa che contasse.
Federico lasciò che gli occhi si chiudessero, solo per un istante, e allora la sentì.

Una voce.
Non forte, non chiara, ma inconfondibile. Una voce che sembrava arrivare da un punto sospeso tra memoria e realtà.

«Non ti piace di giorno, vero?»

Federico sorrise senza aprire gli occhi. «E tu invece ci venivi anche allora, di giorno… ti ricordi?»

Un’eco di risata, breve e calda, gli attraversò la mente.


Quando li riaprì, la luce gli sembrò più dura.
Si alzò e si avvicinò alle altalene. Sfiorò la catena fredda con le dita. La ruggine gli lasciò un segno sottile, rossastro, come sangue secco. Per un attimo ebbe la sensazione che, se solo avesse tirato abbastanza forte, quella catena si sarebbe spezzata, e con essa l’intero equilibrio del mondo.

Alle sue spalle, un rumore.
Un passo.

Federico si voltò di scatto. «Michele?»

Ma c’era solo una donna anziana, con un cane piccolo al guinzaglio. Lo fissava con un misto di curiosità e cautela.

«Bel posto per passeggiare,» disse Federico, cercando di mascherare l’imbarazzo.

Lei annuì piano, senza convinzione. «Non ci viene quasi più nessuno, qui. Dicono che… sia rimasto solo il vento.»

Federico abbassò lo sguardo. «Forse il vento è tutto quello che serve.»

La donna si allontanò lentamente.
Quando Federico tornò verso le altalene, per un istante lo vide.

Michele.
Seduto lì, come se fosse sempre stato lì.
Ma bastò un battito di ciglia, e l’immagine svanì.


Federico sospirò. Con mani esitanti infilò nello zaino, tirandone fuori una vecchia fotografia.
Era quella scattata la sera della nebbia al mare: le biciclette appoggiate alla staccionata, le bottiglie vuote sulla sabbia, le loro risate catturate in un fermo immagine che sembrava ancora vibrare. Dietro di loro, la nebbia. Sempre quella. Solo che adesso, guardandola meglio, Federico ebbe la strana impressione che ci fosse anche altro: una sagoma vaga, un terzo ospite rimasto impresso senza invito.

«Te la ricordi, quella sera?» mormorò, fissando la foto.


Quella sera tornò al parco.
E come sempre, Michele era lì. Seduto sull’altalena, dondolandosi piano.

«Sai che sono tornato qui stamattina?» disse Federico, avvicinandosi.

Michele alzò un sopracciglio. «Davvero? E com’era?»

Federico esitò. «Vuoto. Troppo vuoto. Senza di te è diverso.»

Michele sorrise, inclinando appena la testa. «Forse il parco è vivo solo quando ci siamo noi. O magari… è il contrario.»

Federico rise, breve e un po’ amaro. «E questa da dove l’hai tirata fuori? Filosofia spicciola da altalena?»

«O forse solo quello che tu non vuoi dire ad alta voce,» replicò Michele, senza smettere di sorridere.

Federico lo guardò a lungo. Poi tirò fuori la fotografia e gliela mostrò. «La vedi? Quella sera. Quella maledetta nebbia…»

Michele si sporse appena. «Sì. Eravamo felici.»

Federico annuì, ma non riusciva a staccare gli occhi da quella sagoma dietro di loro. «Ti sembra… che ci fosse qualcun altro?» chiese quasi senza volerlo.

Michele non rispose subito. Continuò a dondolarsi, piano, come se stesse cercando il ritmo giusto per le parole. «A volte il passato ci guarda indietro, Fede. Non serve capire da dove arriva… basta non distogliere lo sguardo.»

Federico avrebbe voluto chiedere altro, scavare di più. Ma proprio in quel momento, come sempre, arrivò la musica.
Un frammento, appena un respiro sospeso tra le fronde degli alberi.

“Ti dico che va tutto bene… anche se cado a pezzi…”

Federico chiuse gli occhi.
E per la prima volta non gli sembrò inquietante.
Per la prima volta, quasi ci credette davvero.

Capitolo 10 – L’ultima estate

Il parco quella notte non era vuoto.
Non nel modo in cui lo vedevano gli altri.

Per Federico, ogni ombra si muoveva come un ricordo che prendeva forma; ogni fruscio di vento tra le foglie somigliava a una voce lontana, irraggiungibile eppure presente. Le catene arrugginite delle altalene gemevano piano, come se il ferro conservasse in sé tutte le risate, le paure e i segreti che aveva visto passare.

Michele era lì, seduto accanto a lui. Sorrideva, quel sorriso storto che un tempo bastava a spazzare via ogni pensiero. Ma nei suoi occhi c’era qualcosa di diverso, una luce lontana, come se provenisse da un luogo troppo distante per appartenere davvero a quella notte.

Federico si lasciò cullare piano dall’altalena, il cigolio che scandiva il silenzio. E, senza nemmeno rendersene conto, tornò indietro. All’ultima estate.


Era una notte appiccicosa di agosto, una di quelle in cui l’aria sembra fermarsi, sospesa, pesante come un sipario che non vuole sollevarsi. Federico non aveva nessuna voglia di uscire. Aveva litigato con suo padre, si sentiva stanco, e nel fondo dello stomaco aleggiava quella strana sensazione che tutto stesse cambiando troppo in fretta.

Ma Michele aveva insistito.
«Non puoi startene chiuso in casa a marcire. Ci vediamo al parco, fra venti minuti.»
E aveva riattaccato, senza lasciare spazio a obiezioni.

Quando Federico arrivò, Michele era già lì. Sedeva sulla panchina consueta, con una lattina di aranciata mezza vuota tra le mani. Lo sguardo perso nel vuoto, come se cercasse una risposta nascosta da qualche parte in quell’oscurità.

«Ehi…» disse Federico, sedendosi accanto a lui con un tono volutamente leggero. «Che hai, oggi? Sembri uno di quei vecchi che parlano coi piccioni.»

Michele rise, ma il suono fu breve, smorzato. «Sai che c’è? Forse non dovremmo restare qui. Non per sempre.»

Federico lo guardò perplesso. «In che senso?»

«In tutti i sensi.» Michele si voltò verso di lui, con gli occhi che brillavano in modo strano. «Fede, non ti sembra di sprecare il tempo? Sempre le stesse strade, lo stesso parco, le stesse facce… come se non ci fosse nient’altro.»

Federico scrollò le spalle. «E tu dove vorresti andare, scusa? A Tokyo? A New York? Noi due con le nostre biciclette?»
Sorrise, cercando di alleggerire la tensione. Ma il sorriso gli morì sulle labbra quando si accorse che Michele non rideva affatto.

«Non sto scherzando,» mormorò Michele, abbassando la voce. «Io… non ce la faccio più a sentirmi così. Come se tutto fosse già deciso, capisci?»

Federico distolse lo sguardo. Quelle parole gli facevano paura, ma non voleva ammetterlo. «È solo una fase, Mich. Passerà.»

Ma Michele lo fissava con un’intensità che lo metteva a disagio. «E tu? Quando la smetterai di far finta che vada tutto bene?»

Lo stomaco di Federico si strinse. «Che diavolo vuoi dire?»

«Che ti nascondi,» rispose Michele senza esitazione. «Sempre. Con tutti. Pure con me.»

Quelle parole caddero tra loro come un pugno nello stomaco. Federico rimase in silenzio, incapace di trovare una risposta. Michele si alzò di scatto: la lattina cadde a terra con un tonfo sordo, mentre le catene delle altalene cigolavano nel vento come un lamento di ferro.

«Sai che c’è?» disse Michele, con gli occhi lucidi di rabbia e qualcos’altro, forse disperazione. «Forse hai ragione tu. Forse resteremo qui per sempre. Fermi. Morti prima ancora di andarcene.»

Federico scattò in piedi e gli afferrò il braccio. «Aspetta… Mich, non fare così.»

Michele lo guardò. In quello sguardo c’era una tristezza così profonda che faceva male. Poi si liberò piano dalla presa, con un gesto lento, come se sapesse che Federico non avrebbe mai avuto la forza di trattenerlo.

«Lasciami stare, Fede,» sussurrò. «Non puoi capire.»

E se ne andò.

Federico rimase immobile, lo sguardo che lo seguiva mentre la sua figura veniva inghiottita dal buio del parco. Non lo aveva richiamato. Non aveva fatto nulla.


Un colpo di vento improvviso lo riportò al presente.
Era di nuovo sull’altalena, il parco immerso in un silenzio irreale.

«Quel litigio…» disse piano, senza quasi accorgersene. «Te lo ricordi?»

Michele si voltò verso di lui. Sorrise. Ma era un sorriso dolce e triste, come se custodisse un segreto che Federico non avrebbe mai potuto sapere. «Certo che me lo ricordo.»

Federico deglutì. «Io… avrei dovuto fermarti quella sera.»

Michele smise di dondolare. Lo fissò a lungo, poi scosse la testa. «Non puoi cambiare il passato, Fede.»

«Ma io—»

«Puoi solo… tornare qui.»

Le mani di Federico si strinsero alle catene dell’altalena. Erano fredde, più fredde di quanto dovessero essere. Abbassò lo sguardo, mentre l’aria notturna si riempiva di un suono familiare.

Una voce, una canzone che sembrava respirare tra le fronde degli alberi:

“Ti dico che va tutto bene… anche se cado a pezzi…”

Federico chiuse gli occhi.
E per la prima volta capì che forse quello era il motivo per cui continuava a tornare.

Capitolo 11 – Frammenti

Il giorno dopo, Federico non riuscì a pensare ad altro.
Il mondo intorno a lui sembrava ovattato, come se ogni rumore fosse attutito da una distanza invisibile. Le voci per strada gli arrivavano lontane, il suono dei clacson era smorzato, persino il ticchettio dell’orologio pareva provenire da un’altra stanza. Continuava a rivedere Michele sull’altalena, il suo sorriso leggermente storto e quella frase che gli si era piantata in testa come un chiodo arrugginito:

«Non puoi cambiare il passato.»

Forse aveva ragione.
Ma se non poteva cambiarlo, almeno poteva ricordarlo. Tutto.

Senza pensarci troppo, afferrò le chiavi della macchina. Il metallo freddo gli tremò tra le dita, come se persino l’oggetto sapesse dove lo stava portando. Girò la chiave, e il motore ruggì nel silenzio del mattino. Prima ancora di rendersene conto, stava già guidando verso il quartiere dove era cresciuto.


Non ci tornava da anni.

Le strade gli sembrarono più strette di quanto ricordasse, come se l’infanzia avesse dilatato gli spazi e il tempo li avesse ristretti di nuovo. Gli alberi, che un tempo gli erano sembrati enormi, ora apparivano più bassi, piegati dal vento e dagli anni. Le case… le case portavano i segni del tempo come volti segnati dalle rughe: balconi arrugginiti, intonaco scrostato, serrande abbassate che parevano non essersi più rialzate.

Ogni angolo gli restituiva un frammento dimenticato: una corsa in bicicletta con Michele, il fiato corto e le ginocchia sbucciate; una risata improvvisa, esplosa senza motivo; il sapore dolce e appiccicoso di un gelato sciolto troppo in fretta sotto il sole.

Il passato gli cadeva addosso a pezzi, e lui non aveva la forza di scansarli.


Parcheggiò davanti al bar di Gianni. Il vecchio neon tremolava, incapace di restare acceso con continuità, come se anche lui stesse lottando per non spegnersi.

Dentro, l’odore era lo stesso di sempre: caffè bruciato, legno consumato, fumo che sembrava essersi impregnato nei muri. Nessuno sembrava accorgersi che fossero passati dieci anni.

«Federico?»

La voce lo fece voltare.
Gianni era dietro al bancone. Più rughe, meno capelli, ma gli occhi… gli occhi erano identici a quelli di un tempo: vividi, attenti, quasi paterni.

«Non ti vedevo da… Dio, saranno dieci anni.»

Federico abbozzò un sorriso incerto. «Ciao, Gianni. Sì… è passato un po’ di tempo.»

L’uomo non gli chiese altro. Si limitò a preparargli un caffè, amaro come sempre, senza neppure domandargli come lo volesse. Appoggiò la tazzina sul bancone con un gesto che sembrava appartenere a un altro tempo. Poi lo osservò in silenzio, inclinando appena la testa.

«E Michele? Voi due eravate inseparabili. Non lo vedo mai in giro.»


Federico si irrigidì.
Per un istante sentì un brivido lungo la schiena, come se qualcuno avesse appena pronunciato un nome proibito.

«Eh… Michele sta…»
Si fermò. Le parole gli morivano in gola. Dire “bene” sarebbe stato mentire. Dire “male”, un tradimento. Alla fine abbassò lo sguardo, fissando il nero amaro del caffè. «Sai com’è, le persone cambiano.»

Gianni lo fissò per un attimo, come se volesse scavare oltre la frase. Poi annuì lentamente. «Già… ma certe cose non cambiano mai. Tipo quel parco. Ci passi ancora?»

Federico sollevò lo sguardo di scatto. «Perché me lo chiedi?»

Il barista scrollò le spalle. «Perché ogni tanto qualcuno giura di sentire delle voci, laggiù. Di notte. Come se… i vecchi tempi non fossero mai finiti.»


Federico rimase immobile. La tazzina sospesa a mezz’aria.
Nessuna risposta.
Solo un silenzio pesante, che riempì il bar come un’ombra.

Finì il caffè in un sorso, amaro fino a farlo quasi tossire. Pagò in fretta, senza aggiungere altro, e uscì.


Quella notte tornò al parco.

L’aria era immobile. Nemmeno il fruscio delle foglie sembrava avere il coraggio di spezzare quel silenzio. Le altalene cigolavano piano, mosse da un vento che non sentiva sulla pelle, come se non fosse aria ma memoria a spingerle.

E Michele era lì. Come sempre.

«Oggi sei stato al bar di Gianni,» disse con tono quieto, ma che non lasciava spazio a dubbi.

Federico si bloccò. «Come fai a…?»

Michele sorrise appena, ma nei suoi occhi non c’era allegria. «Non importa. Lui ti ha detto qualcosa, vero?»

Federico annuì, incapace di distogliere lo sguardo. «Michele… cosa è successo davvero quella notte?»

Michele si dondolò piano sull’altalena. Il rumore metallico delle catene sembrava l’unica cosa viva nel parco. «Non è ancora il momento, Fede.»

Federico scattò in piedi, stringendo i pugni. «E allora quando? Io… io non posso continuare così. Non posso restare intrappolato qui.»

Michele lo fissò, serio, immobile. «E allora smetti di venire.»

Quelle parole gli gelarono il sangue.
«Cosa?»

«Smetti di venire qui, se vuoi davvero andare avanti.» Michele sospirò. «Ma non lo farai. Lo sai anche tu.»


Federico non rispose.
Rimase immobile, mentre il vento faceva oscillare le catene delle altalene. Per un istante, il parco sembrò animarsi. Non di vita, ma di memoria. Come se il passato respirasse ancora tra quegli alberi, insistendo nel suo diritto a non sparire.

E poi, da qualche parte, come un’eco lontana, tornò la canzone:

“Ti dico che va tutto bene… anche se cado a pezzi…”

Federico chiuse gli occhi.
E capì che, stavolta, stava davvero iniziando a caderci dentro.

Capitolo 12 – La notte che non finiva

Il parco era immerso in una nebbia lattiginosa che si muoveva lenta tra gli alberi, come un respiro profondo e costante. Ogni ramo affondava nel bianco, e il mondo sembrava essersi ridotto a quel piccolo spazio sospeso, senza tempo. Federico si fermò all’ingresso, le mani affondate nelle tasche della giacca, lo sguardo rapito dalle altalene che oscillavano appena, mosse da un vento che non riusciva a sentire sulla pelle.

E Michele era lì.
Come sempre.

Seduto sulla sua altalena, dondolava piano. Le catene gemevano a ogni movimento, un cigolio grave, antico, come se stessero ricordando anche loro qualcosa che nessuno voleva ascoltare.

«Sai cosa penso, Fede?» La voce di Michele si confuse per un attimo con il fruscio delle foglie, quasi fosse un pensiero che il vento aveva rubato.

Federico avanzò di un passo, il cuore che gli batteva più forte. «No… cosa?»

Michele non lo guardò. Continuava a fissare il vuoto davanti a sé, come se in quell’aria lattiginosa ci fosse un orizzonte che soltanto lui poteva vedere.

«Che certe notti non finiscono mai.» La sua voce era calma, ma aveva il peso di una condanna. «Possiamo svegliarci, crescere, fingere che sia tutto passato… ma restano qui.» Alzò appena una mano, indicando il terreno, le altalene, gli alberi immersi nella foschia. «Come questo posto. Sempre uguale.»

Federico si morse l’interno della guancia, un dolore sottile che lo tenne ancorato al presente. Quelle parole gli cadevano addosso come pioggia fredda, senza scampo.

«Quella notte…» provò a dire.

Michele sorrise appena, ma era un sorriso che non scaldava. «Lo so. Non te ne sei mai andato davvero, vero?»

Federico non rispose. Perché Michele aveva ragione.


L’aria si riempì del canto lontano delle cicale, un rumore estivo che strideva con la nebbia notturna. L’odore umido dell’erba bagnata gli invase i sensi, e in un istante fu altrove.

Un’altra estate.
L’ultima.

Era tornato al parco dopo giorni di silenzio. La notte era afosa, e le stelle sembravano sciogliersi nell’aria appiccicosa. Michele era lì, immobile sulla sua altalena, uguale a ogni ricordo.

«Sei vivo,» aveva detto Federico, con un sorriso che voleva sembrare uno scherzo, ma che gli tremava sulle labbra.

Michele stringeva le catene arrugginite dell’altalena, le nocche bianche per la forza. «Non per molto, se resto qui.»

Federico aggrottò la fronte. «Che diavolo significa?»

Michele inspirò a fondo, come chi deve trovare coraggio in un respiro. «Che devo andarmene, Fede. Non posso più restare. Non posso più fare finta.»

Qualcosa si strinse nello stomaco di Federico, come una mano invisibile. «E io? Io che faccio?»

Michele abbassò lo sguardo, incapace di sostenerne gli occhi. «Tu resterai. Tu resti sempre.»

Quelle parole gli trafissero il petto. Federico fece un passo avanti, spinto dalla rabbia e dalla paura insieme. «Se te ne vai… non tornare più!»

Michele sorrise. Ma era un sorriso spezzato, fatto di ombre. «Attento a quello che desideri, Fede.»

E poi si alzò. Si voltò verso il sentiero e se ne andò, senza mai guardarsi indietro.
E Federico, per la prima volta, non lo seguì.


La nebbia lo riportò al presente, densa, pesante. Michele era ancora lì, come se nulla fosse cambiato, seduto sull’altalena. Uguale a quella notte.

«È stata colpa mia,» sussurrò Federico, quasi senza fiato.

Michele si fermò. Si voltò lentamente verso di lui. Nei suoi occhi non c’era rabbia, soltanto un’ombra di malinconia che sembrava infinita.

«No, Fede. È stata solo… una notte che non è mai finita.»

Un refolo di vento improvviso mosse le altre altalene, tutte vuote. Eppure Federico giurò di sentire il metallo vibrare come un coro di voci lontane, dimenticate.

E poi, da qualche parte, arrivò di nuovo quella canzone.
Un frammento che bucava il silenzio, come un segno inciso nell’aria:

“Ti dico che va tutto bene… anche se cado a pezzi…”

Ma stavolta non era una bugia.
Stavolta, suonava come un addio.

Capitolo 13 – L’ultima altalena

Federico arrivò al parco più tardi del solito. La città alle sue spalle dormiva già da un pezzo, eppure lui aveva l’impressione che il tempo non scorresse allo stesso modo tra quei cancelli arrugginiti. Lì dentro ogni minuto si dilatava, come se le lancette non avessero più importanza.

La nebbia quella sera era più fitta che mai. Colava tra gli alberi, avvolgeva i lampioni e inghiottiva i contorni delle panchine. Ogni cosa sembrava sospesa, irreale. Il vento, soffiando piano, faceva vibrare le catene delle altalene. Un suono metallico e lamentoso, come un coro di voci imprigionate nel ferro.

Michele era già lì.
Seduto al suo posto, come sempre.

«Sei in ritardo,» disse senza voltarsi, la voce bassa, quasi un soffio dentro la nebbia.

Federico sorrise appena, ma era un sorriso stanco, spezzato. «Lo sono sempre stato, no?»

Si avvicinò e si lasciò cadere sull’altalena accanto a lui. Le catene gemettero sotto il suo peso, un lamento che si unì a quello del vento. Per qualche istante non parlarono. Solo il cigolio lento del ferro e il respiro del parco riempivano il silenzio.


«Ho ricordato quasi tutto,» disse infine Federico, la voce incrinata.

Michele si voltò lentamente. Nei suoi occhi non c’era sorpresa, ma una quieta attesa, come se avesse sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato.

«E allora?»

Federico abbassò lo sguardo, fissando la ghiaia ai suoi piedi. «E allora… non riesco a perdonarmi.»

Michele sospirò, un suono breve, dolente. «Non è mai stata colpa tua, Fede.»

«Sì che lo è.» La voce di Federico si spezzò in gola. «Se quella notte fossi corso dietro di te, se non ti avessi lasciato andare via da solo…»

«Avresti potuto tenermi qui a forza?» Michele scosse appena la testa, un sorriso triste che lo attraversò come un’ombra. «Non credo.»


Federico chiuse gli occhi. Le immagini si affollarono nella mente tutte insieme, come schegge di vetro: la lite sotto le stelle, le parole scagliate con troppa violenza, le accuse che non avrebbe mai potuto cancellare. E poi Michele che si allontanava, rabbioso, il passo veloce, senza mai voltarsi.

«Dopo che sei scappato,» sussurrò Federico, «ti ho cercato. Ore intere. Ho girato per strade che non finivano mai… Poi ho saputo dell’incidente.»

Michele abbassò lo sguardo sulle mani, intrecciando le dita intorno alle catene dell’altalena. «Non era grave. Solo qualche osso rotto, qualche cicatrice. Ma dentro…» inspirò profondamente, «dentro ero stanco, Fede. Stanco di restare in un posto dove tutto mi ricordava quello che non riuscivo a cambiare.»

Federico lo fissò, gli occhi lucidi di rabbia e dolore. «E quindi hai deciso di sparire.»

«Non volevo farti male,» rispose Michele piano, la voce quasi spezzata. «Ma se fossi rimasto… ti avrei trascinato giù con me.»

Le parole rimasero sospese nell’aria, pesanti come macigni. Federico sentì il cuore battere troppo forte, doloroso, quasi fosse sul punto di rompersi.

«Non avevi il diritto di scegliere per me,» mormorò, con un filo di voce.

Michele lo guardò negli occhi. Per un istante, non c’era distanza tra loro. «Lo so. E mi dispiace.»

Per la prima volta, quell’ammissione non suonava come un’ombra, né come una giustificazione. Era vera.


Un vento più forte attraversò il parco, scuotendo gli alberi e facendo tremare le luci dei lampioni. La nebbia si mosse, e per un attimo Michele sembrò sfocarsi, come se il suo corpo fosse fatto della stessa sostanza del bianco che li avvolgeva.

Federico serrò le mani intorno alle catene fredde dell’altalena. «Perché torni sempre qui?»

Michele sorrise. Non il sorriso spavaldo di un tempo, ma uno più lieve, venato di malinconia. «Perché non mi hai mai lasciato andare, Fede. E finché resti aggrappato a me… io resto qui.»


All’improvviso, tra le pieghe del vento, arrivò la melodia.
Quella canzone che li aveva seguiti ovunque, frammento dopo frammento, come un richiamo impossibile da ignorare:

“Ti dico che va tutto bene… anche se cado a pezzi…”

Federico sollevò lo sguardo. Michele lo osservava, e nei suoi occhi brillava qualcosa di diverso. Non dolore. Non rabbia. Ma pace. Una pace che lo attraversò come una carezza e che, per un attimo, bastò a colmare tutti i vuoti.

Federico non disse nulla. Non serviva.

Michele sorrise ancora una volta. Un sorriso lento, definitivo. «Ci vediamo, Fede.»

E il vento si placò. Le catene smisero di muoversi. La nebbia si ritirò, silenziosa, come acqua che scivola via.

Federico rimase lì, solo.
Solo con il respiro del parco e il silenzio che, stavolta, non era soltanto un addio.

Era anche un inizio.

Epilogo – Come nei parchi fanno le altalene

Il parco era vuoto.
Un vuoto che non apparteneva soltanto allo spazio, ma al tempo stesso. Un vuoto che sapeva di fine e di inizio.

Il silenzio era denso, quasi solido. Lo avvolgeva come un mantello, interrotto soltanto dal fruscio del vento tra le fronde e dal cigolio lontano di un’altalena che oscillava da sola, spinta da una corrente invisibile. Ogni lamento metallico pareva un richiamo, un residuo di voce lasciato da chi se n’era già andato.

Federico era seduto lì, le mani fredde avvinghiate alle catene, il respiro che si disperdeva nella notte lattiginosa.
Era passato un mese dall’ultima volta che aveva visto Michele. Un mese in cui aveva evitato quel luogo come si evita una ferita che non si vuole più toccare. Aveva provato a vivere: a riempire le giornate con voci, strade illuminate, risate forzate. Aveva tentato di credere che bastasse il rumore del mondo a soffocare l’eco del passato.

Eppure, quella sera, aveva ceduto.
Forse non per nostalgia.
Forse soltanto per dire addio.
Davvero.


Chiuse gli occhi.
Per un istante, fu certo che avrebbe sentito alle sue spalle quel tono ironico, familiare, che lo aveva accompagnato per anni:

«Sei in ritardo, Fede.»

Ma non arrivò nulla.
Solo il vento. Solo il vuoto.

Un sorriso amaro gli piegò le labbra.
Era giusto così.

Dal giubbotto tirò fuori una fotografia stropicciata. Lui e Michele, sedicenni, davanti al parco. I loro sorrisi larghi, pieni di una fiducia che soltanto i ragazzi sanno avere, quando credono che niente e nessuno possa dividerli. Passò il pollice sulla superficie consumata, come a voler sentire la pelle, la voce, la risata. Ma era solo carta. Solo memoria.

Le parole di Gianni gli tornarono alla mente, limpide come se fossero appena state pronunciate:

«Ogni tanto qualcuno giura di sentire delle voci laggiù di notte…»

Forse non erano fantasmi.
Forse erano solo ricordi ostinati, brandelli di vita che rifiutavano di spegnersi del tutto.


La notte dell’incidente lo travolse di nuovo.
La lite sotto le stelle, le parole dette troppo in fretta, Michele che corre via e lui che resta immobile, troppo orgoglioso per inseguirlo. Poi le sirene, il lampeggiare blu sulle strade bagnate, la notizia che gli aveva strappato il respiro. E dopo, un silenzio che aveva divorato tutto.

Non c’era stato un addio.
Non c’era stata una spiegazione.
Solo quel vuoto che per anni aveva continuato a mordere.

Federico strinse la foto con forza, fino quasi a sgualcirla, e parlò piano, con un filo di voce che la notte accolse come una confessione:

«Ciao, Mich. Questa è davvero l’ultima volta.»

Lo disse senza rabbia.
Senza rimpianti.
E per la prima volta da allora, il cuore non si spezzò.
Provò soltanto una dolce, disarmante pace.


Il vento si alzò, muovendo l’altalena accanto alla sua. Non era un cigolio casuale: sembrava un saluto, un ultimo gesto, come una mano invisibile che si staccava lentamente.

Federico sorrise, con gli occhi umidi ma finalmente leggeri.

E allora, tra il respiro degli alberi e il fruscio delle catene, gli parve di sentire ancora quella canzone.
Lontana.
Sfumata.
Ma viva.

“Ti dico che va tutto bene… anche se cado a pezzi…”

Federico rise piano, un suono fragile ma sincero, come non accadeva da anni. Poi si alzò lentamente, lasciando che le catene ricadessero contro il ferro con un tonfo sordo.

Diede un ultimo sguardo al parco.
Non era più una prigione di ricordi. Non era più un confine tra passato e presente.
Era solo un parco.

E Michele… Michele non era più lì.
Non come fantasma, almeno.

Adesso viveva solo come memoria.
E, per la prima volta, questo bastava.

Perché, come nei parchi fanno le altalene, anche i ricordi non smettono mai davvero di oscillare.


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